La città-rete meridionale


A partire dal secondo dopo guerra, l’armatura urbana italiana si trasforma per la scelta ideologica ed affaristica di deregolamentare le politiche urbane, consegnando agli investitori privati l’opportunità di accumulare capitali sfruttando le rendite parassitarie (fondiaria ed immobiliare). Questa scelta ha favorito la costruzione di agglomerati urbani che non sono città e rinnegando la disciplina urbanistica e derogando le norme urbanistiche nazionali. Le Amministrazioni locali hanno favorito gli interessi particolari dei privati edulcoranti i piani urbanistici che hanno realizzato periferie e quartieri privi o carenti di standard minimi, poi hanno favorito la dispersione urbana, e l’aumento dell’impatto ambientale e con grande consumo di suolo agricolo. Ci sono stati due fenomeni molto noti: una prima fase di urbanesimo con la crescita fisica e demografica dei centri principali, e poi una contrazione delle grandi città che ha favorito l’inurbamento dei piccoli centri limitrofi ai comuni centroidi, di fatto favorendo la creazione di nuove città estese, reti di città, o città di città. Questi fenomeni condizionati dal capitalismo non sono stati affrontati ma sottovalutati, e così sono aumentate le disuguaglianze territoriali (carenze di standard fra città del Nord e Sud, e carenze di standard fra quartieri e quartieri), ed è aumentato il disordine urbano costituito dal fenomeno della disomogeneità degli aggregati edilizi e dalla dispersione urbana. E’ altrettanto noto che negli anni ’60 gli speculatori privati vinsero il duello sul regime dei suoli, e così ci ritroviamo le aree urbane devastate dalla rendita fondiaria e immobiliare. L’aumento delle disuguaglianze territoriali fra Nord e Sud è favorito anche dallo Stato che non distribuisce equamente le risorse della fiscalità generale ma le concentra in pianura padana sottraendole a Comuni che hanno maggiore bisogno.

Esempi virtuosi di pianificazione territoriale e urbanistica sono presenti in Inghilterra, in Svezia, in Germania e in Olanda, quest’ultimo senza dubbio il territorio meglio organizzato sotto il profilo urbanistico, e dal loro esempio possiamo imparare programmi e processi virtuosi. Ad esempio, il meridione italiano potrebbe ispirarsi al modello del Randstad Holland, cioè una rete di città costituita da quattro principali centri e poi centri minori, e le funzioni specializzate non si concentrano in un’unica città ma sono divise e ripartite sulla rete, i nodi (le città stesse). In questo modello prevale l’infrastruttura di collegamento che consente a merci e persone di muoversi sul treno, di integrare il mezzo privato come la bicicletta ad esso. Funzioni, attività e risorse sono collegate da un’efficace rete ferroviaria. Un sistema analogo è stato pianificato anche in Germania, in Svezia e in Danimarca. Il modello si chiama Transit Oriented Development (TOD), cioè una costruzione delle aree urbane attraverso i sistemi di mobilità intelligente, con attività e funzioni concentrate nei nodi degli spostamenti, cioè le stazioni metropolitane, affinché le persone siano incentivate a spostarsi a piedi poiché il lavoro è localizzato presso le fermate. Negli USA il TOD è molto utilizzato e divulgato dal New Urbanism in opposizione al famigerato sprawl urbano. Nel meridione d’Italia non esiste una rete ferroviaria efficace che collega tutti centri urbani principali e secondari, mentre i sistemi urbani attuali sono carenti di servizi fondamentali, le agglomerazioni industriali sono state svuotate dalla delocalizzazione e nessuno ha investito in nuove attività produttive di manifattura leggera. Tutto ciò ha favorito l’aumento della povertà e l’aumento delle disuguaglianze, e il famigerato divario fra Nord e Sud d’Italia, che ha favorito i Sistemi Locali del Lavoro padani realizzando un dipendenza di consumi che favorisce esclusivamente un’area geografica privilegiata e sostenuta persino dal calcolo diseguale perché concentra risorse pubbliche in determinate aree sottraendole agli altri, cioè le disuguaglianze sono pianificate dallo Stato con una ridistribuzione iniqua e scorretta.

Nel caso della Campania, e quindi non solo per i gravissimi casi di Sardegna e Sicilia che sono privi di una normale rete ferroviaria, nonostante i capoluoghi di Provincia (Napoli, Salerno, Avellino, Caserta e Benevento) siano vicini fra loro, non esiste un’efficace rete di metropolitana regionale che collega i centri principali con un tempo massimo fra i 20 e 30 minuti. I centri urbani nel resto d’Europa possiedono infrastrutture adeguate da anni e questa disuguaglianza determina uno svantaggio sociale ed economico rilevante per il Sud poiché l’assenza di una “rete” efficiente rallenta le relazioni sociali e produttive della Regione.

Ancora oggi il modello di accumulazione dei capitali nei Sistemi Locali del Nord si basa sull’ideologia della competitività, ed oggi le politiche urbane dei grandi centri (città globali, New York, Tokyo, Londra, Parigi…) stimolano la concorrenza della conoscenza che aggrava il divario fra i Sistemi produttivi a danno di quelli rurali. Secondo l’approccio delle “città globali”, queste aree urbane sono capaci di attrarre investimenti pubblici e privati accelerando le disuguaglianze e sottraendo risorse umane alla aree interne e rurali, realizzando altri danni come l’aumento del rischio idrogeologico. Anziché inseguire il modello sbagliato neoliberale che professa la competitività dei territori, sarebbe saggio preferire la cooperazione, la rilocalizzazione delle attività produttive e ridurre lo spazio del mercato per aumentare quello della comunità, privilegiando il sapere locale. Attualmente le nostre aree urbane meridionali, oltre a vedersi sottrarre risorse pubbliche, soffrono la competitività del Nord e soffrono di vecchi problemi mai affrontati come il disordine urbano ereditato dagli anni della speculazione edilizia, poi continua il consumo di suolo agricolo, e l’abusivismo edilizio che seppur calato non è contrastato efficacemente. Nei centri meridionali, notoriamente c’è carenza di servizi standard, carenza di infrastrutture pubbliche e persino di collegamenti. Affrontare questi vecchi temi secondo il pensiero dominante della crescita significa concorrere alla distruzione del meridione, allora è necessario affrontare i problemi sociali ed economici pensando allo sviluppo umano e non all’aumento esclusivo della produttività delle merci. Normalmente le città intrattengono con l’esterno scambi di materia, energia, popolazione, beni, servizi e informazioni. L’osservazione e la misura di questi scambi in chiave bioeconomica consente di eliminare gli sprechi e favorire l’impiego di tecnologie più efficienti. Le città meridionali possono essere i nodi di una rete connessa per favorire lo sviluppo umano secondo il modello TOD e mostrare la diversità culturale, cioè scambiare la conoscenza e favorire la relazione umana, e per farlo è necessario favorire gli spostamenti di persone potenziando i trasporti pubblici e non privati. Attualmente, secondo lo schema del pensiero dominante le città sono utilizzate dalla politica economica come spazi per accumulare i capitali, e le politiche urbane sono piegate agli interessi delle imprese per competere (il meccanismo vizioso della crescita continua e infinita, in un mondo finito), così le aree abbandonate dalle industrie sono state trasformate in attività terziarie e lottizzazioni, ma la competitività della conoscenza accelera le disuguaglianze poiché esclude territori a danno degli altri (dipendenza e sottosviluppo). Nonostante la delocalizzazione della globalizzazione neoliberista, accade che i Sistemi Locali del Lavoro si adeguano, e gli spazi vengono riconvertiti in attività terziarie ma solo in determinate aree (pianura padana). Le disuguaglianze territoriali restano tali, poiché la produttività agglomerata nel corso dei decenni in pianura padana resta immutata, mentre il Sud Italia non vede cambiare il proprio tasso di disoccupazione. Perché? Ahimé, i dati storici (Emanuele Felice, “Crescita, crisi, divergenza: la disuguaglianza regionale in Italia nel lungo periodo”, in ISTAT, La società italiana e le grandi crisi economiche 1929 – 2016, Roma, 2018) forniti dall’ISTAT dimostrano che nel corso dei decenni, la programmazione economica non ha rispettato la Costituzione riducendo le disuguaglianze, ma ha fatto l’esatto opposto, cioè ha concentrato maggiori risorse della fiscalità generale in pianura padana trascurando volutamente il meridione. Ricordando le banali leggi dell’economia, ogni impresa per insediarsi in un territorio richiede la presenza di infrastrutture costruite dallo Stato. Nel meridione, si scelse di allocare alcune attività molto impattanti in pochi centri (Napoli, Taranto, Priolo, Gela) trascurando l’intero territorio, per questo motivo non ci sono mai state le infrastrutture diffuse necessarie per i centri urbani e per le piccole attività produttive leggere, anzi le scelte politiche furono quelle di deprivare la maggioranza dei territori di qualunque capacità di sviluppo. Tutt’oggi mancano infrastrutture pubbliche per collegare i centri urbani, mancano collegamenti est-ovest, e quelle poche esistenti necessitano di manutenzione.

La rinascita del meridione può ripartire avviando una cooperazione strategica di tutte le Regioni meridionali, elaborando programmi, piani e progetti sull’identità culturale del territorio, e aprendo attività di manifattura leggera legata alla rigenerazione urbana e territoriale bioeconomica. Ad esempio, piani di recupero e di rinnovo urbano delle zone consolidate considerando le nuove strutture urbane estese. In queste nuove città è possibile recuperare e trasformare gli spazi urbani sottoutilizzati e abbandonati per favorire il recupero degli standard mancanti, per favorire la ricerca applicata, così come lo sviluppo di attività tecnologiche sostenibili legate alla conservazione del patrimonio e alla mobilità leggera non inquinante, così come tutti i progetti che applicano la sovranità alimentare ed energetica. Per favorire questo processo innovativo cooperativo è necessario creare luoghi e spazi per agglomerare centri studi e di ricerca per studenti, cittadini, e professionisti; si tratta di luoghi aperti ove chiunque può insediarsi e frequentare per progettare attività che sviluppano processi e tecnologie sostenibili utili al bene comune.

La straordinaria bellezza del meridione, del suo paesaggio, del suo patrimonio e della sua storia rappresentano la base identitaria per costruire un progetto bioeconomico di tutta la rete di città. Spostarsi coi mezzi pubblici e fra le aree urbane, dall’Adriatico al Tirreno passando per lo Ionio, può favorire lo sviluppo umano della regione meridionale. Imitando i sistemi europei è possibile collegare con i tram-treno tutti i centri minori a quelli principali, e questo significa, ad esempio, percorrere grandi distanze 70-80 km in circa 30-40 minuti senza l’uso dell’auto. Con questa infrastruttura si hanno molteplici vantaggi economici e sociali perché le persone non sono più costrette ad abbandonare i centri rurali, mentre chi vive nei centri principali può raggiungere i centri più piccoli con mezzi alternativi. Realizzando alcuni servizi culturali e sanitari mancanti nei centri minori questi diventano anche più attrattivi.

aree-urbane-e-metropolitane
La struttura urbana italiana.

 

5 pensieri riguardo “La città-rete meridionale”

Lascia un commento