In numerose riflessioni precedenti ho espresso idee e percorsi per porre le basi di progetti concreti e favorire lo sviluppo umano nelle aree marginali meridionali (la città-rete meridionale), e in particolare quella salernitana. Il ceto dirigente occidentale ha deciso che la recessione economica innescata dalla pandemia di covid-19 debba essere pagata da tutti, con un’evidente ripercussione sui ceti economicamente già deboli. Anziché riflettere sull’opportunità di uscire dall’economia debito, tutti hanno pensato di restare sul paradigma culturale sbagliato e scaricare il peso economico delle scelte politiche sugli Stati, cioè sulla fiscalità generale. All’interno di questo insensato manicomio istituzionale, le élites locali potrebbero pensare di fare diversamente e chiedere di usare il cosiddetto recovery fund per investire in progetti bioeconomici ma per farlo le stesse dovrebbero conoscere il piano culturale bioeconomico.
Partendo dall’approccio culturale neoclassico sappiamo che gli investitori sono attratti da territori ma soprattutto aree urbane già ricche, poiché dotate di capitale sociale adeguato, infrastrutture e famiglie con un portafogli che può spendere, cioè consumare; di conseguenza le aree urbane con un capitale sociale inadeguato, senza infrastrutture e con basso reddito pro-capite sono meno attrattive. Queste informazioni sono pubblicate dall’ISTAT ed osserva che ancora oggi insistono grandi differenze tra il Nord e il Sud (nell’ultimo periodo 2007-2018 sono aumentate), tra città e campagne, e tra le zone di pianura con quelle di montagna, e tutto ciò è determinato da fattori rilevanti come i collegamenti ai mercati e la forza attrattiva dei centri economicamente forti che offrono attrazioni e servizi, ma a prezzo di tempi più sacrificati per la vita di relazione, con minore disponibilità di risorse ambientali e criminalità più elevata. In questa fase, banche e imprese stanno pensando di investire nelle aree urbane meglio attrezzate per rigenerare le periferie di questi contesti, e in Italia, sicuramente Milano resta il principale polo attrattore. In che modo il meridione d’Italia può competere? Semplice non può, se si resta sul piano ideologico sbagliato: il capitalismo!
Il ceto dirigente meridionale dovrebbe abdicare a sé stesso e favorire la visibilità di un nuovo ceto politico formato sull’approccio bioeconomico e capace di cooperare, fare squadra, proporre programmi, piani e progetti per riempire quel vuoto di servizi (culturali, sanitari, ambientali) e mezzi (infrastrutture pubbliche leggere) per collegare aree rurali e aree urbane estese poiché questo è quello che influenza le scelte di vita degli abitanti. Oppure un nuovo ceto dirigente dovrebbe emergere da solo proponendo la propria visione politica e coinvolgendo attivamente gli abitanti nel realizzarla al fine di migliorare la propria esistenza. L’approccio bioeconomico, cioè territorialista, può offrire possibilità di sviluppo umano e poi crescita economica durevole nel tempo poiché stimola attività e funzioni compatibili con la storia, il territorio e l’ambiente. Sempre l’ISTAT rileva la sostanza delle difficoltà economiche e sociali nel Mezzogiorno: alla chiusura di attività economiche non vi sono stati interventi per stimolare l’apertura di nuove, e ciò ha influito anche sulle dinamiche demografiche a sfavore del Sud ma a favore del Nord, dando un serio contributo all’aumento delle disuguaglianze. Per contrastare seriamente questo enorme divario, secondo lo scrivente, sarebbe necessario un progetto bioeconomico poiché è in grado di creare valore e di conseguenza ricchezza in maniera distribuita per gli abitanti e per gli investitori, mentre l’approccio economico neoclassico crea ricchezza solo per gli investitori e consente l’esportazione dei capitali, e quest’ultimo è l’approccio privilegiato dalle istituzioni ed è una delle cause dell’aumento delle disuguaglianze territoriali oltreché dell’impoverimento del sistema Paese-Italia.
Gruppi organizzati composti da cittadini e imprese possono legittimamente interloquire con le istituzioni e suggerire di usare i fondi pubblici e privati per attuare l’interesse generale: affrontare i problemi dei territori e risolverli con soluzioni intelligenti come la rigenerazione urbana bioeconomica che osserva la realtà esistente e interviene su di essa per cambiare la morfologia urbana progettandone una migliore con attenzione ai temi sociali, ambientali oltreché con la qualità urbanistica e architettonica. Questo approccio è notoriamente utilizzato in Europa ma meno in Italia poiché si sono preferiti i processi speculativi, cioè favorire gli interessi degli investitori sfruttando la rendita immobiliare e lasciando insoluti i problemi delle città che riguardano edifici arrivati a fine ciclo vita (rischio sismico), mobilità, disordine urbano e carenza di servizi.
L’aspetto assurdo e grottesco, osservando l’area urbana salernitana, è che ci troviamo di fronte a un territorio complesso ma ricco di opportunità non sfruttate, non perché mancherebbero le risorse finanziarie (oggi disponibili pensando al recovery fund) ma perché mancano i cervelli “istituzionali” capaci di osservare e di proporre un cambio paradigmatico utilizzando l’approccio bioeconomico. Osservando la disorganizzazione territoriale e l’aggressione all’ambiente, istituzioni locali come i Comuni salernitani appiano inerti e corresponsabili del degrado che impedisce lo sviluppo sociale ed economico sia delle persone che delle imprese perché non riconoscono il valore del proprio patrimonio storico, culturale e ambientale, ed ancora non hanno capito come è usato il territorio dai propri abitanti. Anziché competere fra loro e dividersi per beghe personalistiche di potere come accadeva nel peggiore medioevo, le istituzioni locali dovrebbero sviluppare una capacità ancora ignota: ascoltare! Mentre i cittadini dovrebbero cominciare a proporre e stimolare la nascita di nuove attività economiche capaci di creare lavoro, perché resta il principale problema sociale del territorio salernitano. In che modo? Costruendo una nuova visione di città estesa con progetti di trasformazione urbanistica utili alle persone, cioè che creano attività, funzioni e servizi mancanti dentro le zone consolidate attraverso un nuovo disegno urbano ma ben fatto secondo la corretta disciplina urbanistica, trascurata ed edulcorata in ambito politico istituzionale. Non è affatto un segreto che i Sistemi Locali del Nord Europa usano correttamente la disciplina urbanistica per garantire una buona qualità di vita ai propri abitanti, ed è altrettanto chiaro che territori come la Campania fanno l’opposto per garantire privilegi a pochi ma a danno della collettività; ma ciò è compreso da pochi (l’assenza di urbanistica crea disuguaglianze) mentre la maggioranza delle persone ignora questa realtà sprecando le proprie esistenze e quelle altrui costrette ad emigrare per ambire ad una vita serena e dignitosa ma fuori dai territori natali. Questa disuguaglianza di riconoscimento va superata, cioè bisogna valorizzare persone meritevoli per favorire un reale ed efficace cambiamento sociale ed economico che può innescare processi virtuosi di miglioramento dell’ambiente costruito e che produce lavoro utile alla comunità. Aggredire le disuguaglianze territoriali è fondamentale per stimolare processi di autorealizzazione sociale ed economica, ed il recovery fund, in un Paese come l’Italia, dovrebbe essere utilizzato per raggiungere questo obiettivo politico: concentrare investimenti per dare nuove opportunità nei territori marginali.
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