Considerazioni sulla gestione delle città e sul D.G. Campania n. 369/2023

Considerazioni sulla gestione delle città e sulla Delibera di Giunta regionale Campania n. 369/2023 modifiche alla Legge Regionale (L.R.) Campania 16/2004 “Norme sul governo del territorio”

Prima di esprimere modeste considerazioni sul presente-futuro della legislazione urbanistica campana, una breve premessa è doverosa per comprendere il “clima” italiano e campano. Nella disciplina urbanistica, l’Italia non è più un modello o Paese guida da cui attingere buone pratiche o innovazioni tecnico-giuridiche, e la Campania, in maniera particolare, paga le conseguenze peggiori poiché le maggioranze politiche espresse dai cittadini hanno privilegiato ristretti ceti sociali dirigenziali e clientelari, ma negando diritti costituzionali a buona parte della popolazione. La scelta politica principale è stata quella di ignorare la corretta disciplina urbanistica per mercificare il territorio, trascurare le bellezze paesaggistiche creando disvalore, danni sociali e ambientali diffusi. Il mantra del mercato diffonde il vizio della corruzione, ed è insita nella famigerata rendita fondiaria ed immobiliare, che in Italia non è stata contrastata ma accettata, e spartita fra pochi. Nel resto d’Europa la gestione urbana è nel solco dell’ideologia liberale ma gli altri Paesi sono ben consapevoli del fatto che la rendita assoluta nelle mani private sia un furto inaccettabile per lo Stato, e pertanto non hanno rinunciato al ruolo attivo e pubblicistico della Pubblica Amministrazione. In Italia, la maggiore diffusione di questa patologia (rendite parassitarie e disordine urbano) risale al secondo dopo guerra, nonostante una avanzata legislazione nazionale L. 1150/1942 che ambiva a fare bene i piani, e nonostante si conoscessero gli effetti perversi sin dall”800 (Hans Bernoulli, 1876-1969). L’evidenza patologica si ebbe con la sconfitta della proposta di riforma urbanistica (Sullo, 1962). Il ceto dirigente italiano scelse la teologia liberista per rubare risorse allo Stato ed accumularle facilmente nelle tasche private (circa 800/1000 miliardi di euro; Blečić, Lo scandalo urbanistico 50 anni dopo, FrancoAngeli, 2017), cioè di chi influisce sulle scelte pianificatorie delle trasformazioni urbanistiche. Un dato inquietante rilevato dall’ANAC nel Rapporto 2020 dice che fra i settori più colpiti dalla corruzione il 74% riguarda gli appalti pubblici. Nella letteratura tali fenomeni speculativi – disordine spaziale e istituzionale – sono associati anche al carattere criminogeno del ceto dirigente che ha la forza di influenzare e determinare le scelte politiche dei piani, agendo come «soggetto politico e referente culturale, in grado di organizzare un proprio modo di produzione» (D. De Leo, Mafie&Urbanistica, FrancoAngeli, 2015). Queste scelte, col trascorrere dei decenni, hanno deformato la struttura capitalista italiana stimolando la crescita delle rendite parassitarie ma penalizzando la capacità produttiva del sistema Paese. La rendita è la classica accumulazione capitalista sganciata dal lavoro, e questo fenomeno si è diffuso in tutta Italia per l’eccessiva presenza di seconde, terze abitazioni creando un corto circuito sociale ed economico.

Da ciò possiamo cominciare a desumere e riconoscere il fatto che i problemi nelle città italiane non derivano tanto dalle leggi ma dalla condotta delle istituzioni politiche, e non dal fatto che si voglia imporre una strategia o una pianificazione ma dall’assenza di valori costituzionali e di piani fatti bene, edulcorati e condizionati proprio dalle famigerate rendite parassitarie.

Nel resto d’Europa, i ceti dirigenti hanno preferito conservare l’approccio socialista (pubblicistico), sia formando adeguatamente la pubblica amministrazione e sia sviluppando capacità di governare il meccanismo della rendita, tassandola adeguatamente con il recupero diretto dei plusvalori ma progettando corretti piani urbanistici, con densità equilibrate e servizi di prossimità. Ad oggi, il modello migliore sembra essere “SoBoN” di Monaco di Baviera, attraverso una adeguata e normale regia pubblica che pianifica e concorda gli interventi di rigenerazione urbana, e preleva una corretta tassazione della rendita (recupero diretto del plusvalore fondiario) per costruire la “città pubblica” con servizi di welfare urbano e sociale. Il problema urbanistico campano è tutto qui: l’incapacità di costruire adeguatamente la “città pubblica” (standard e servizi) rispettando l’enorme valore ambientale esistente (paesaggio e patrimonio storico).

L’effetto di deregolamentare il regime giuridico dei suoli trascurando la scienza dell’urbanistica creò danni economici per lo Stato e disuguaglianze territoriali, ma ciò fu limitato nelle Regioni di sinistra che scelsero di controllare la rendita e potenziarono gli standard utilizzando la disciplina urbanistica, tant’è che esistono territori più o meno pianificati. Quelle Regioni che scelsero maggioranze politiche comuniste/socialiste oggi ereditano città attrezzate meglio con insediamenti urbani più progrediti, accoglienti ed attrattivi, sfruttando anche l’usurpazione di un’iniqua ed ingiusta distribuzione delle tasse che favorisce alcune aree (pianura padana) a danno di molte altre (Sud e non solo). Queste differenti ed opposte scelte politiche creano i primi grandi divari territoriali che stimolano l’emigrazione. La Regione Campania è fra i territori meno pianificati e maggiormente distrutti dai processi speculativi, nonostante la straordinaria bellezza del patrimonio costruito ereditato, poiché l’esplosione urbana avvenuta dal secondo dopo guerra in poi ha catturato ed avvolto secoli di storia.

ISTAT, lo spopolamento del Sud con il calo demografico e l’emigrazione dei giovani, 2023.

Dal secondo dopo guerra in poi le istituzioni campane hanno dimostrato una incapacità nell’applicare i diritti costituzionali ribaditi nel famoso DM 1444/68, una scarsa tutela delle caratteristiche paesaggistiche, naturali, storiche, e scarsa tutela delle zone rurali favorendo un’espansione senza limiti che ha creato aree urbane estese determinando l’obsolescenza dei confini amministrativi; poi a partire dagli anni ’90 sono iniziati i fenomeni di contrazione demografica; mentre le amministrazioni non hanno saputo governare i fenomeni di concentrazione e dispersione delle attività e delle funzioni che determinano i flussi di persone e merci. La globalizzazione ha favorito la contrazione demografica nei comuni centroidi mentre l’eccessiva concentrazione ha costruito agglomerati congestionati con gravi carenze di standard nei quartieri (zone consolidate) ed alta dispersione (periurbano e rururbano), che favorisce disuguaglianze territoriali intollerabili, e sono altrettanto noti i fenomeni di abusivismo edilizio, rischio sismico ed idrogeologico che diventano drammatiche emergenze per l’assenza di prevenzione primaria.

Di fronte a tale eredità complessa e complicata, ed anche criminale, non si ha il coraggio di proporre cambiamenti radicali, ma si immagina che i soggetti privati siano guidati da un’etica ed un senso di responsabilità migliori di chiunque altro. Si crede che i soggetti economicamente più forti debbano indirizzare le scelte politiche per concedere, in maniera paternalistica, la costruzione dei diritti costituzionali. La storia urbana italiana dimostra in maniera inequivocabile che il famigerato mercato è stata la favola raccontata alle masse per arricchirsi a danno della collettività, e tutt’oggi tale narrazione viene propinata senza alcun pudore.

Nonostante ciò non si deve credere che ogni investitore o soggetto attuatore sia uno speculatore perché non è così, ed in Campania sembra mancare la volontà politica ed istituzionale nel realizzare un serio coordinamento pubblico capace di ottenere l’interesse generale affrontando i problemi urbani (carenza di servizi), sociali ed ambientali degli abitanti costretti a sopravvivere, in numerosi ed estesi “brani urbani”, in disordinati agglomerati di mera merce edilizia privi o carenti di servizi. Il paradosso italiano è che le aree urbane che necessitano di reali e concreti progetti di rigenerazione urbana sono quasi tutte al Sud, ma le istituzioni appaiano del tutto incapaci di applicare la Costituzione, e di liberare la creatività dei progettisti, per restituire diritti a quegli abitanti, costretti ad emigrare, ancora oggi, per vivere più dignitosamente.

Il D.L.R. Campania n.369 del 19/06/2023 modifiche alla L.R. Campania 16/2004 “Norme sul governo del territorio” con un ritardo di 28 anni (riforma INU 1995) si adegua agli indirizzi “strutturali” (Piano Strutturale Urbanistico, PSU) ed “operativi” (Programmi Operativi, P.O.) della pianificazione urbanistica (art. 22 e 23). I livelli sono due: strutturale ed operativo con un sottolivello attuativo (Piani Attuativi, PA), ed infine, ovviamente il Regolamento Urbanistico Edilizio (RUE). Il livello strutturale del piano (PSU) indica le destinazioni d’uso, individua gli indici e i parametri di densità, gli ambiti di intervento ed i fabbisogni pregressi non soddisfatti in termini di dotazioni ecologiche, attrezzature e servizi di interesse collettivo, e le potenzialità insediative di riuso, rigenerazione e densificazione all’interno del territorio urbanizzato. Se da un lato la norma ambisce a “recuperare il tempo perduto” dall’altro lato l’indirizzo appare programmatorio-strategico anziché della pianificazione che interviene sull’intero territorio comunale ma non focalizza i problemi urbani specifici della Campania. La norma, paragonata a quella delle Regioni Toscana, Lombardia ed Emilia Romagna, appare carente sotto il profilo culturale, soprattutto dal punto di vista “territorialista” trascurando concetti come “patrimonio territoriale“, “invarianti strutturali” e “statuto del territorio“, così si limita a copiare alcuni indirizzi europei e nazionali di carattere strategico, ma quella campana non regolamenta la creazione di un quadro di conoscenza di tutto il territorio, cioè non indica l’analisi e la valutazione dei tessuti urbani esistenti, ma si affida ad un elenco di buone intenzioni (art.2). La Regione Toscana ha una legge sul governo del territorio (L.R. 65/2014 aggiornata nel 2023) scritta in 9 Titoli e 256 articoli; mentre la norma campana (L.R. 16/2004 in fase di aggiornamento) è articolata in soli 3 Titoli e 50 articoli. Oltre alle differenze sui principi (patrimonio territoriale, invarianti strutturali, statuto del territorio), la Toscana norma nel Titolo II procedure e partecipazione con 27 articoli; nel Titolo III con 17 articoli norma gli istituti della collaborazione (accordi di pianificazione e Conferenza paritetica); e nel Titolo IV con 30 articoli la tutela del paesaggio (territorio rurale) e la qualità del territorio (qualità degli insediamenti); nel Titolo V con 42 articoli troviamo gli atti di governo del territorio e la rigenerazione urbana e nel Titolo VI troviamo l’attività edilizia. La Regione Campania norma in un solo Titolo (II) e 30 articoli ciò che la Toscana norma con ben 4 Titoli (V, VI, VII, VIII) in 133 articoli. Le differenze estensive sono troppo ampie per normare la stessa materia; forse la Toscana ha esagerato oppure la Campania è troppo riduttiva. In Campania si trascura la condivisione e pubblicizzazione di una approfondita banca dati informatizzata degli insediamenti urbani, sinonimo di conoscenza condivisa a tutti. C’è una scarsa focalizzazione sulle strutture urbane estese e l’ennesima sottostima del disordine urbano esistente.

Dal punto di vista del dimensionamento dei piani e dei diritti costituzionali, la norma campana (art. 31) si limita a confermare lo standard minimo previsto dal DM 1444/68, appena 18 mq/ab, mentre altre Regioni sono arrivate a 30 mq/ab già molti anni fa, e la stessa Regione Campania negli anni ’70 prescriveva 30 mq/ab. Questa scelta riduttiva degli standard è in contraddizione con gli stessi obiettivi del disegno di legge che chiede il «rafforzamento del verde e degli spazi urbani» (art. 2). Dal punto di vista dell’attuazione la norma prevede la perequazione di comparto (artt. 32 e 33) e non quella diffusa.

La norma chiede ai Comuni di contenere il consumo di suolo agricolo limitando le espansioni per preferire interventi rigenerativi dentro le zone consolidate, e tutto è ciò è auspicabile [evitare di consumare altro suolo] ma emergono subito difficoltà da superare poiché la realtà campana abbonda di zone congestionate ed affollate, che necessitano di essere decongestionate per fare spazio a standard di quartiere assenti. In Campania, com’è noto, insistono numerosi centri urbani a rischio vulcanico. Il D.L.R. intende continuare sul piano della “semplificazione” dei processi di trasformazione urbana scommettendo sull’interesse dei soggetti privati nel programmare nuove lottizzazioni private; la norma sembra voler dire: la “semplificazione” (in taluni casi permesso di costruire convenzionato e SCIA) può fare a meno della corretta pianificazione urbana, per preferire e continuare con un approccio di programmazioni strategiche (c. 3 art. 3) suggerendo ai Comuni un elenco di “azioni” (art. 2) da adottare (azioni condivisibili) ed attrarre gli investitori privati (c. 2 art. 33 ter) che potranno presentare un proprio “programma operativo” sfruttando gli incentivi (c. 7 art. 33 quater), ed accelerando tali processi attraverso la “dichiarazione di pubblica utilità”.

Lo scopo dell’urbanistica non è il profitto dei privati ma costruire diritti per tutti gli abitanti, e l’approccio teologico liberale ampiamente diffuso in Italia crede che l’indirizzo strategico dei piani possa ottenere risposte adeguate e in tempi più rapidi.

La rigenerazione urbana è prevista dal c. 9 bis art. 23 (D.L. 314/2022) sempre attraverso l’approccio strategico ed un elenco di “azioni prioritarie” da progettare; mentre nel comma 9 ter dell’art. 23 continuano le gaffe culturali credendo che gli incentivi, i premi e l’innovazione tecnologica determinano qualità architettonica ed urbanistica. Il comma 9 octies dell’art. 23 intende favorire i trasferimenti di volumi degli edifici posti in aree ad alto rischio idrogeologico da frana e da alluvione attraverso l’incremento volumetrico del 50% dell’indice fondiario per l’edilizia residenziale. L’incentivo serve a sostenere la fattibilità economica degli interventi, e non è negativo in sé. La rigenerazione urbana potrà essere attuata nei quartieri residenziali degradati, aree dismesse e periferie, attraverso P.O. (art. 33 quater).

La norma introduce regole per favorire interventi di Edilizia Residenziale Sociale (art. 48 bis), e per gli interventi di sostituzione edilizia nelle aree dismesse bisogna destinare almeno una quota del 40% della volumetria lorda preesistente e ricostruita per l’ERS (9 decies art. 23).

Dal punto di vista della trasparenza informatica (art. 17), nonostante si millanti una condivisione, il geoportale della Regione Campania non presenta una completa condivisione di dati informatici circa gli insediamenti urbani come fanno altre Regioni (Toscana, Emilia Romagna, Lombardia…). L’assenza di dati condivisi è un evidente ostracismo ed un enorme danno pubblico poiché limitando la capacità creativa e progettuale delle libere professioni si limitano i diritti collettivi di tutti.

La recente attività edilizia campana continua a costruire la negazione della città, perché non si elabora un corretto assetto del territorio con un disegno di suolo, e quindi si assiste alla costruzione di nuovi edifici multipiano a torre scompaginati, a volte isolati, nelle forme aperte sia nelle espansioni periferiche, e sia riempendo alcuni vuoti urbani dentro le zone consolidate aumentando le congestioni esistenti. E queste recenti lottizzazioni spesso non hanno contribuito a costruire la “città pubblica”, poiché gli stessi Enti pubblici sembrano incapaci di applicare l’interesse pubblico. Questa cattiva gestione urbana è alla base delle disuguaglianze economiche e sociali, che producono effetti già noti: la concentrazione di ricchezze parassitarie che sfruttano le rendite, il disvalore della città stessa perché non produce ricchezza distribuita e quindi si stimola l’espulsione di importanti risorse umane che emigrano verso Sistemi Locali del Lavoro gestiti meglio, perché più attrattivi e più sostenibili.

Nella norma si leggono altre gaffe culturali poiché si confonde e ci si affida alla “programmazione” (economica) anziché alla pianificazione, e poi si crede che la rigenerazione urbana si possa realizzare anche attraverso il recupero delle superfetazioni (locali tecnici, art. 45 ter).

In Italia prosegue un limite culturale viziato dalla vecchia scelta liberista, e pertanto il ceto dirigente continua a svalutare il sapere, la conoscenza, per favorire l’egoismo di settori privati che usurpano i diritti collettivi sfruttando il territorio. La teologia preferisce il carattere programmatorio e non pianificatorio perché lo giudica più veloce, ma si tratta di una scelta politica ideologica sia per accontentare l’immagine propagandistica dei Sindaci che promettono interventi puntuali da realizzare entro il mandato elettorale, e sia per sostenere gli interessi privati. Questa scelta è ampiamente radicata tant’è che la legge sui contratti pubblici prevede il partenariato pubblico privato nella programmazione e realizzazione delle opere pubbliche (c. 2 art. 37 D.Lgs. n.36/2023). Tutto ciò non è sconveniente ma in Campania la maggioranza dei Comuni non riesce ad ottenere significativi miglioramenti della morfologia urbana per assenza di cultura fra gli amministratori circa la corretta pianificazione urbana.

La mentalità “programmatoria” è stata trasferita ai funzionari (ormai meri burocrati) che recepiscono pedissequamente gli indirizzi europei e riducono il ruolo dell’Amministrazione alla sola compilazione di schede e bandi per ottenere fondi. Non adottando più piani urbanistici rispondenti a idee, a valori identitari, territoriali, ci si limita a compilare carte; ed in tal senso l’organo politico appare persino inutile. Gli Enti locali campani appaiono carenti anche in questo aspetto “programmatorio”, ragion per cui non si ottengono risorse, ma la politica dovrebbe pensare ed esprimere idee di valore (caratteri identitari dei luoghi e del territorio per stimolare nuova occupazione utile), e poi decidere, al fine di applicare gli indirizzi della Costituzione, invece per assenza di piani fatti bene, accade che servizi e diritti sono negati e sottratti stimolando l’emigrazione verso il Nord e l’estero di giovani laureati, e studenti universitari. In assenza di cultura della corretta pianificazione urbanistica, ciò che resta è la mera accumulazione capitalista attraverso volgarissimi e violenti piani edilizi che realizzano la negazione della città, fra l’altro creando un disvalore.

A partire dagli anni ’80, la classe dirigente italiana attraverso norme e regole ha scelto di sminuire la figura professionale dell’architetto-artigiano (e del libero professionista), la stessa che ha dato lustro ed identità all’Italia intera. La teologia liberale chiama tutto ciò “competitività di mercato”, ma gli strumenti giuridici adottati assomigliano alla società medioevale che si basava sul vassallaggio. Il legislatore italiano, da molti anni ormai, ha condotto e vinto una guerra incivile contro le libere professioni, per addomesticarle, snaturarle, umiliare e mortificarle, per sfruttare a basso o bassissimo costo le competenze tecniche. Il famigerato D.Lgs n.36/2023 conferma l’edulcorazione culturale dell’operatore economico (un tecnico non è un operatore economico) mentre all’interno della pubblica amministrazione si sfrutta l’impiego di un tecnico ma sottopagato (il cosiddetto istruttore tecnico/RUP) per assolvere a tutti i compiti di indirizzo, programmazione, progettazione, controllo, esecuzione e gestione del processo delle opere pubbliche realizzabili anche con i subappalti a cascata. Le opere pubbliche sopra soglia sono progettate da operatori economici, spesso da archistar simili a multinazionali della progettazione.

La scommessa è quella di credere al mercato e quindi continuare a sottovalutare i privilegi egoistici della rendita parassitaria poiché c’è il serio rischio che i privati potranno attribuirsi da soli gli incentivi previsti ed approvati dalla Giunta comunale (cioè dal Sindaco). La maggioranza politica scommette su nuovi cicli economici attraverso l’iniziativa privata, ma nei Paesi civili e normali (progrediti), le istituzioni locali rappresentano correttamente l’interesse generale proprio attraverso la pianificazione, cioè fanno l’opposto di quello che accade in Campania.

Osservazioni sulle norme circa il governo del territorio campano

La recente legge regionale della Campania L.R. 13/2022 disciplina gli interventi edilizi e gli interventi di rigenerazione urbana, e nel farlo modifica articoli significativi (art. 23 PUC, art. 26 PUA ed art. 31 Standard urbanistici) della L.R. 16/2004 (Norme sul governo del territorio) cambiando in maniera profonda gli interventi di trasformazione urbanistica. L’intenzione sarebbe quella di favorire interventi di rigenerazione urbana attraverso norme di deregolamentazione dell’attività edilizia (art. 2 L.R. 13/2022); e introducendo criteri e parametri di edificabilità con incentivi (premi volumetrici) che a discrezione dei Comuni si potrebbero autorizzare derogando (art. 3 L.R. 13/2022) dai limiti inderogabili di densità, altezze e distanze previsti negli art. 7, 8 e 9 del DM 1444/68, nonostante quest’ultimi siano notoriamente inderogabili, per l’appunto!

lett. c) comma 9 octies art.3 L.R. 13/2022 Campania.

La Regione Campania vorrebbe recuperare un ritardo legislativo ma senza elaborare una revisione normativa volta a cogliere ed armonizzare le migliori esperienze urbanistiche europee, e così introduce regole già in uso altrove ma con modalità attuative controverse, rischiose e contra legem (DM 1444/68) perché alcune deroghe scritte non sono possibili considerando il fatto che le stesse sono inderogabili, e che tali limiti sono dettati da una legge quadro nazionale. Il comma 9 octies della L.R. 13/2022, da un lato, per favorire la delocalizzazione di edifici (cioè trasferimenti di volumi) esistenti in aree ad alto rischio da frana ed alluvione scrive che bisogna rispettare i limiti inderogabili del DM 1444/68 ma sfruttando un incremento volumetrico dell’indice fondiario fino ad un massimo del 50%, e dall’altro lato la lettera c) dello stesso c. 9 octies modifica l’art. 31 della L.16/2004 consentendo ai Comuni di derogare ai limiti inderogabili degli art.7, 8 e 9 dello stesso DM 1444/68. Il paradosso è che da un lato si usa correttamente l’incentivo, e dall’altro si desidera derogare ad una legge quadro ben scritta sfruttando il medesimo incentivo, cioè l’aumento della volumetria esistente. La L.R. 13/2022 prevede un incentivo dell’aumento di volumetria per un massimo del 20% su interventi di ristrutturazione, ed un max del 35% per gli interventi di demolizione e ricostruzione. Non è negativo l’incentivo in sé, già utilizzato in tutto l’Occidente, ma diventa pericoloso quando si realizza in zone consolidate congestionate, la norma prevede che (c.5 e c.6 dell’art. 4 L.R. 13/2022) i Comuni individuano le aree e gli edifici dove non sono consentiti gli interventi con incentivi volumetrici, sarebbe stato più facile e più logico fare il contrario: perimetrare le aree ove prevedere gli incentivi. Pensando alla complessità urbana presente in Campania, la parte più pertinente della legge 13/2022 riguarda le modalità di demolizione e ricostruzione di edifici da rilocalizzare, descritte nei commi 13, e 14 dell’art. 4 poiché gli interventi sono vincolati a quote non inferiori al 20% di edilizia residenziale sociale.

La contraddizione più profonda è quella culturale perché per legge si associano concetti come la qualità e l’incentivo credendo che siano correlati ma è un’espressione fantasiosa e surreale, e si ha la velleità di ottenere la sostenibilità e la qualità urbanistica per legge, e si crede che si possa fare derogando da quelle tecniche compositive che caratterizzano la disciplina urbanistica italiana, nel caso in cui le Amministrazioni vorrebbero operare trasformazioni urbanistiche dentro le zone consolidate. Ricordiamoci che il governo del territorio è competenza regionale ma le leggi regionali devono rispettare le leggi quadro nazionali, pena la loro illegittimità. Le regole degli art. 7, 8 e 9 del DM 1444/68, che la Regione ha deciso di derogare, costituiscono i famosi limiti inderogabili che hanno consentito all’Italia non solo di limitare e/o impedire interventi speculativi dentro le zone consolidate ma di insegnare a decine di migliaia di architetti ed amministratori come fare bene i piani urbanistici normando criteri che riguardano le densità edilizie, le altezze e le distanze. Le densità imposte dalla legge hanno l’obiettivo di tutelare le zone già costruite e questi limiti applicati da taluni Comuni consentono agli abitanti di vivere in aree consolidate con quartieri attrezzati, mentre dove questi limiti non furono rispettati, soprattutto in Campania, la storia ci informa del fatto che si realizzarono disuguaglianze territoriali negando diritti a numerosi abitanti costringendoli a vivere in agglomerati congestionati ed aree urbane caotiche, disordinate e fuori legge, cioè la negazione della città. Gli insediamenti urbani andrebbero progettati attraverso regole e forme che realizzano determinate densità finalizzate a conservare armonia, decoro e proporzionalità. La stessa letteratura urbanistica considera alti i limiti di densità del DM 1444/68, perché l’esperienza che sta alla base di un’idea compositiva ritiene che per realizzare quartieri ben proporzionati si dovrebbero avere densità edilizie ancora più basse (cioè medie, 300 ab/ha), mentre una parte della letteratura ritiene di fare l’opposto. La qualità, in sostanza, non si può introdurre per legge perché è figlia di un piano e/o di un progetto urbano, cioè appartiene alla cultura del tecnico incaricato.

Il famigerato sprawl urbano realizzato anche in Campania non è l’unico problema delle persone che vivono nelle aree urbane, anzi, forse è il problema meno rilevante. La forma urbana delle città campane è compromessa da una diffusa carenza culturale circa la disciplina urbanistica, ma una forza rilevante è determinata dalla corruzione morale e materiale e dall’avidità degli speculatori che hanno costruito insediamenti disomogenei, affollati, carenti di soleggiamento, privi di servizi e carenti di standard. Il connubio fra potere criminale e ceto politico ha costruito interi quartieri di merce edilizia degradata, e questi dovranno essere demoliti per ripristinare legalità e disciplina urbanistica. In Campania le aree urbane sono fin troppo compatte da essere congestionate, e poi allo stesso tempo sono disperse e disorganizzate. Una priorità delle città campane è favorire processi di trasferimenti di volumi per decongestionare e non per stimolare il peggioramento delle congestioni esistenti con l’aumento dei carichi urbanistici nelle zone consolidate perché si desidera aumentarne le quantità con i premi volumetrici (maggiori profitti privati). Questi incentivi non sono sbagliati in sé ma sono pericolosi se si realizzano in zone congestionate.

Il legislatore campano nell’affanno per recuperare il tempo perduto trascura vecchi e noti problemi di legalità all’interno della pubblica amministrazione; mentre la complessità urbana e rurale della Campania restano sullo sfondo. La realtà amministrativa degli Enti locali appare drammatica poiché non si riconosce l’assetto del paesaggio urbano e territoriale, e spesso si trascurano i principi costituzionali e gli scopi dell’urbanistica, così come l’incapacità di leggere e interpretare i concetti di densità ed intensità urbana. La legislazione urbanistica campana introduce incentivi già noti in letteratura ma confrontata con le norme della Regione Toscana resta culturalmente disorganica ed arretrata, sia sotto il profilo giuridico costituzionale (si pensi alle disuguaglianze crescenti, all’assenza di welfare urbano ed alla carenza di standard) e sia sotto il profilo tecnico-procedurale, e si ha le netta sensazione che tutto ciò sia voluto per non disturbare speculatori, clientele locali e rendite parassitarie consolidate. La pratica amministrativa campana è viziata da un teologia incivile ultra-liberista ove il potere economico decide come usurpare le risorse collettive con il sostegno politico dei Consigli comunali, e questo ceto dirigente compie scelte politiche contraddicendo la Costituzione, la disciplina urbanistica e gli indirizzi culturali anche dell’INU, che chiede di recuperare i plusvalori delle rendite per indirizzarli alla costruzione della “città pubblica” (c. 4 art. 3, proposta di legge “Principi fondamentali del Governo del territorio”). Il legislatore campano trascura la realtà delle aree urbane estese, l’obsolescenza dei confini amministrativi ed i fenomeni di contrazione, concentrazione e dispersione delle attività e delle funzioni che determinano i flussi di persone e merci, e si conferma il fatto che non si vuole normare correttamente la disciplina urbanistica e non si vuole adottare lapproccio culturale bioeconomico per aggiustare le aree urbane e ridurre i divari territoriali. Si può intuire che la priorità del ceto dirigente campano è copiare norme e meccanismi econometrici per scommettere sulla nascita di nuove rendite parassitarie restando sul piano teologico sbagliato ed obsoleto: il famigerato “libero mercato”, che non esiste. La norma si concentra sul ritorno economico degli investitori privati. Si affermano concetti surreali come il presunto miglioramento della qualità urbanistica attraverso l’incentivo per giustificare e favorire possibili interventi speculativi grazie al consenso politico dei Consiglieri regionali avendo approvato anche il comma 9 quarter dell’articolo 3. Le recenti esperienze europee dimostrano che un miglioramento si può ottenere solo introducendo nuovi modelli di gestione urbana (recupero diretto del plusvalore fondiario) e controllando il progetto e la morfologia urbana, e non attraverso un vacuo concetto di “forme della contemporaneità, coniugando l’eredità della storia dei luoghi con la cultura”, affermando una comunicazione propagandistica ideologizzata e scritta in una legge regionale, tutto ciò non ha senso.

In Occidente si consiglia di limitare il consumo di suolo attraverso processi di densificazione perché le città europee non sono state costruite da cattivi amministratori politici e dai processi speculativi, ma adottando la corretta composizione urbanistica e sfruttando un corretto regime giuridico dei suoli (esproprio generalizzato e concessione del diritto di superficie). Le amministrazioni europee acconsentono interventi di densificazione in quelle aree e zone dove le densità sono basse conducendo i carichi urbanistici a livelli medi, ed in generale questa tecnica è abbinata ad una strategia molto nota: Transit Oriented Development (TOD). All’estero non esiste l’abusivismo edilizio e le rendite differenziali sono tassate correttamente perché gli amministratori rispettano la professione dell’urbanista che sceglie un corretto disegno di suolo ed adotta la composizione della famosa cellula urbana, quindi con standard e servizi raggiungibili a piedi, e poi un efficace sistema di trasporto pubblico per raggiungere servizi di rango cittadino o extraurbano. Le zone consolidate delle città europee della mitteleuropa, generalmente, hanno corretti rapporti fra spazio pubblico e privato, strade, e verde di quartiere; ma in Campania tutto ciò o manca o è carente. Per essere chiari non è il premio volumetrico o la densificazione in sé che favorisce una corretta rigenerazione urbana ma un corretto quadro di conoscenza ed un’adeguata metodologia di analisi ed interpretazione che corregge la morfologia esistente e propone un adeguato disegno di suolo. La rigenerazione urbana è una scelta politica, è un processo culturale proprio del progettista e non una legge. Per favorire ed avviare sinceri processi di rigenerazione anche in Campania è necessaria un’assunzione di responsabilità da parte del ceto dirigente e l’adozione di piani urbanistici ben fatti secondo l’approccio culturale della scuola territorialista. Per legge bisognerebbe introdurre veri e sinceri processi partecipativi popolari poiché i piani hanno conseguenze dirette sugli abitanti.

La Campania ha persino un “difetto di sistema” perché preferisce la perequazione di comparto a quella diffusa (o “generalizzata”), rendendo vana la perequazione stessa e gli obiettivi costituzionali e giuridici dell’urbanistica che vuole costruire la città pubblica con le tasse ben calibrate circa gli investitori che ottengono profitti attraverso una scelta politica (non di merito), e pareggiando i diritti edificatori di chi costruisce limitando la discriminatorietà dei piani stessi ma applicando l’uso sociale dei suoli.

E’ la cultura del progettista che disegna un corretto piano urbanistico e che a sua volta progetta la qualità urbanistica ed architettonica degli insediamenti umani, e certamente non può farlo un pacchetto di leggi disorganiche e contraddittorie. Le leggi dovrebbero essere scritte meglio, nella forma e nella sostanza, dovrebbero essere più semplici e comprensibili per dettare le regole, ed in Italia ed in Campania mancano quelle giuste poiché l’urbanistica è umiliata dalla volgare contesa dei politicanti, ed al momento non esiste un partito politico che sia cosciente e consapevole dell’importanza vitale di un corretto governo del territorio per ridurre i rischi sismici ed idrogeologici, e le intollerabili e immorali disuguaglianze. In materia urbanistica c’è la necessità che il legislatore aggiorni la legge quadro nazionale L. 1150/42, ed armonizzi ed integri tutte le norme in materia edilizia ed urbanistica osservando il cambiamento radicale avvenuto in Italia circa l’armatura urbana e l’abbandono delle aree rurali ed interne. Il titolo V della Costituzione ha stimolato le disuguaglianze poiché l’Italia è di fatto federale con 20 leggi urbanistiche differenti, tant’è che esistono italiani che vivono in aree urbane con maggiori standard ed italiani che vivono in città con minori standard (o addirittura senza standard) com’è prescritto dalle proprie norme regionali. In Italia esistono individui che godono di opportunità poiché sono presenti servizi in città, ed altri individui che non possono usufruire delle medesime opportunità per mancanza di servizi. Il ceto dirigente italiano appare incapace di programmare e finanziare seri interventi per aggiustare gli errori della teologia capitalista che ha costruito merce edilizia e non città.

Dal punto di vista del governo del territorio, la Campania dovrebbe introdurre la corretta disciplina urbanistica soprattutto dal punto di vista gestionale ed amministrativo contrastando le famigerate rendite parassitarie. Le esperienze altrui (Barcellona e Monaco di Baviera) dimostrano che una corretta rigenerazione urbana è possibile grazie al ruolo di coordinamento pubblico, alla trasparenza e alle capacità di dirigenti e funzionari pubblici, con la seria intenzione di applicare i principi costituzionali, e introducendo criteri efficaci di recupero diretto dei plus valori fondiari ed immobiliari per indirizzarli alla socializzazione (perequazione diffusa per costruire la città pubblica). La centralità di queste corrette pratiche amministrative sta nel rapporto pubblico e privato, e nel progetto, cioè nel controllo della morfologia urbana che realizza la trasformazione degli insediamenti. Bisognerebbe fare l’opposto di quello fatto finora. La Regione dovrebbe introdurre l’obbligatorietà del fascicolo del fabbricato, copiare la Regione Toscana circa la realizzazione di un “data base” unico (GIS) di tutto il patrimonio costruito; copiare la Regione Lombardia che ha individuato tutti i volumi abbandonati e sottoutilizzati e li ha inseriti nel GIS; introdurre: la perequazione diffusa, il recupero diretto del plus valore fondiario e la tassa sulle rendite differenziali copiando la Baviera e la Catalogna; favorire l’unione dei Comuni finalizzata a preparare piani intercomunali, aggiornare il proprio piano paesaggistico secondo l’approccio territorialista, finanziare la metropolitana regionale per unire le persone imitando il modello Randstad Holland, e finanziare i servizi mancanti nelle aree urbane estese e rurali.

In taluni casi, copiare da chi è più bravo è la cosa più furba da fare: L.R. 65/2014 Toscana

G.U. 97, 1968, articoli del D.M. 1444/68.

Stupidità e illegalità

La proposta della Giunta regionale Campania è fuori da ogni logica, oltre che palesemente immorale e illegittima poiché contra legem, contro i valori e i principi della legge urbanistica nazionale e contro la Costituzione (tutela del paesaggio). In primis fu il nostro legislatore ad approvare ben tre condoni edilizi: L. 47/1985;  D.L. 468/1994; art. 32 D.L. 269/2003. Un comunicato del sito della Regione recita: «la Giunta Regionale, nella seduta di oggi [14/03/2017], ha approvato una proposta di disegno di legge sul tema dell’anti-abusivismo edilizio in Campania. Si tratta di linee guida per il governo del territorio, a supporto degli enti locali che intendono utilizzare misure alternative alla non avvenuta demolizione di immobili abusivi» (Comunicato n. 84 – Antiabusivismo e occupanti per necessità: proposta di legge della Giunta regionale).

Nella nostra legislazione esiste un’ampia gamma di illeciti e  reati (inosservanza delle norme, assenza del permesso di costruire, difformità, variazioni essenziali, lottizzazione abusiva, interventi in zone vincolate) in campo urbanistico ed edilizio, si tratta di sanzioni amministrative (ammenda) e reati che prevedono anche la reclusione su condotte non consentite dalle norme (arresto fino a due anni). L’oggetto dei reati urbanistici sono il rispetto formale degli strumenti urbanistici e l’ordinato sviluppo del territorio. Nel diritto amministrativo e urbanistico il tema è il diritto dell’Amministrazione di governare l’assetto del territorio comunale reprimendo gli illeciti edilizi, e facendo rispettare la normativa e le prescrizioni, attuando un controllo preventivo mirato a tutelare il territorio.

Le norme contemplano anche il potere-dovere di vigilanza (art. 27, comma 1 T.U. 380/2001) delle nostre istituzioni (Sindaco e uffici, art. 31 T.U. 380/2001) e l’obbligo di applicare le sanzioni (l’ingiunzione a demolire), mentre oggi ci ritroviamo con le istituzioni politiche che propongono di venire meno ai propri obblighi suggerendo l’ennesimo condono a danno della collettività.

La proposta della Giunta regionale campana è qualcosa di vergognoso poiché suggerisce di applicare una tassa, un affitto che lo Stato dovrebbe incassare dalle famiglie che vivono negli immobili abusivi. Le leggi dello Stato prevedono che nel caso in cui il responsabile dell’abuso non provveda alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi, allora gli immobili sono acquisiti di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune (art. 31 T.U. 380/2001) e poi demoliti, a spese dei responsabili dell’abuso.

E’ incredibile, la Giunta regionale anziché finanziare i servizi attraverso una regolare e normale programmazione, suggerisce ai Comuni di locare gli immobili, nel caso di «occupanti per necessità», anziché sostenere i piani di zona (edilizia popolare) per i ceti meno abbienti. La Giunta preferisce elargire cattivi consigli e condotte contra legem piuttosto che organizzare il territorio applicando regole e legalità. Si tratta di scelte politiche di mera stupidità. L’assurdo è che il ruolo della Regione è anche quello del potere sostitutivo al Comune (art. 26 L. 1150/1942, mod. dall’art. 6 L. 765/1967) disponendo direttamente la demolizione dell’opera abusiva (difformità dalle regole del PRG).

Gli interventi eseguiti in assenza o totale difformità dal titolo abilitativo vanno sanzionati con la demolizione. Mano più leggera in caso di variazioni non essenziali. È quanto emerge dalla sentenza 1484/2017, con cui il Consiglio di Stato ha classificato i diversi tipi di abuso edilizio e indicato quale sanzione applicare in base al Testo Unico dell’Edilizia (Dpr 380/2001).
Assenza o difformità totale dal permesso di costruire: scatta la demolizione. È la categoria di abusi più grave ed è disciplinata dall’articolo 31 del testo Unico dell’edilizia. Avviene quando si realizza un’opera edilizia senza aver ottenuto il permesso di costruire, ma anche quando gli interventi effettuati sono completamente diversi da quelli autorizzati. Questo si verifica se l’organismo edilizio costruito è:
– integralmente diverso per caratteristiche tipologiche architettoniche ed edilizie;
– integralmente diverso per caratteristiche planovolumetriche, e cioè nella forma, nella collocazione e distribuzione dei volumi;
– integralmente diverso per caratteristiche di utilizzazione (la destinazione d’uso derivante dai caratteri fisici dell’organismo edilizio stesso);
– integralmente diverso perché comportante la costituzione di volumi nuovi ed autonomi.
In tutti questi casi è prevista la demolizione e ci sono anche conseguenze penali a carico del responsabile.

Abuso edilizio totale: Quando la costruzione avviene in assenza di qualsiasi titolo abilitativoLa costruzione in assenza di permesso di costruire si realizza quando il titolo non è stato mai richiesto o non è mai stato rilasciato nonchè quando il titolo c’è ma risulta privo di efficacia, sia in origine, sia a seguito di un provvedimento di autotutela del Comune o una pronuncia di annullamento da parte del giudice amministrativo. L’abuso totale si verifica quindi in caso di realizzazione di manufatti completamente diversi per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso, e per l’esecuzione di volumi oltre i limiti indicati nel progetto e autonomamente utilizzabili.

Abuso edilizio sostanziale: Se la costruzione ha subito variazioni essenziali rispetto a quanto oggetto di permesso o addirittura ha caratteristiche costruttive o destinazione d’uso completamente diverse. L’abuso edilizio sostanziale si verifica nel caso ci siano le cosiddette “variazioni essenziali” ovvero sostanziale differenza qualitativa/quantitativa rispetto al progetto autorizzato in origine. Nell’articolo 32 del Testo unico dell’edilizia si trovano indicati i criteri per la definizione delle variazioni essenziali ovvero: cambio di destinazione d’uso con variazione degli standards, aumento della cubatura o della superficie, modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto e violazione della normativa edilizia antisismica. Le Regioni possono stabilire i casi che determinano variazioni essenziali nel rispetto dei principi fissati dal legislatore nazionale. Anche se c’è una differenza notevole tra l’assenza del permesso, la totale difformità e le variazioni essenziali, in tutti e tre i casi viene applicata l’ordinanza di demolizione.

Abuso edilizio minore: È il caso degli interventi realizzati con modalità diverse da quelle previste e autorizzate ma che incidono su elementi particolari e non essenziali. L’abuso edillizio minore si verifica nel caso degli interventi costruttivi autorizzati ma realizzati con modalità diverse che incidono solo su elementi particolari e non essenziali della costruzione. Con la sentenza del Consiglio di Stato n. 2325 del 1° giugno 2016 è stato definito che la difformità parziale si riscontra quando la costruzione è stata sì autorizzata ma risulta in parziale difformità rispetto al titolo, di conseguenza non è possibile identificare una parziale difformità quando si tratta di opere realizzate senza titolo per ampliare un manufatto preesistente. In questo senso, vengono qualificate come “difformità parziale” le opere che non comportano una snaturazione, per conformazione o struttura, dell’opera autorizzata, ma solo accorgimenti tecnici necessari ad evitare inconvenienti di comune esperienza. Ne è un esempio la sentenza del Consiglio di Stato n. 3676 del 10 luglio 2013 che ha definito “difformità parziale” l’innalzamento di un solaio dato che questo era stato fatto per facilitare lo scorrimento delle acque meteoriche.

La soluzione per porre fine all’ingiustizia e alla rapina, siede sul nuovo piano culturale bioeconomico capace di misurare i flussi di energia e materia, e che pone il territorio fuori dall’economia mercantile e finanziaria. Il suolo non è merce ma una risorsa limitata che consente agli ecosistemi di vivere. Il territorio è un bene e non una merce.