Considerazioni sulla gestione delle città e sul D.G. Campania n. 369/2023

Considerazioni sulla gestione delle città e sulla Delibera di Giunta regionale Campania n. 369/2023 modifiche alla Legge Regionale (L.R.) Campania 16/2004 “Norme sul governo del territorio”

Prima di esprimere modeste considerazioni sul presente-futuro della legislazione urbanistica campana, una breve premessa è doverosa per comprendere il “clima” italiano e campano. Nella disciplina urbanistica, l’Italia non è più un modello o Paese guida da cui attingere buone pratiche o innovazioni tecnico-giuridiche, e la Campania, in maniera particolare, paga le conseguenze peggiori poiché le maggioranze politiche espresse dai cittadini hanno privilegiato ristretti ceti sociali dirigenziali e clientelari, ma negando diritti costituzionali a buona parte della popolazione. La scelta politica principale è stata quella di ignorare la corretta disciplina urbanistica per mercificare il territorio, trascurare le bellezze paesaggistiche creando disvalore, danni sociali e ambientali diffusi. Il mantra del mercato diffonde il vizio della corruzione, ed è insita nella famigerata rendita fondiaria ed immobiliare, che in Italia non è stata contrastata ma accettata, e spartita fra pochi. Nel resto d’Europa la gestione urbana è nel solco dell’ideologia liberale ma gli altri Paesi sono ben consapevoli del fatto che la rendita assoluta nelle mani private sia un furto inaccettabile per lo Stato, e pertanto non hanno rinunciato al ruolo attivo e pubblicistico della Pubblica Amministrazione. In Italia, la maggiore diffusione di questa patologia (rendite parassitarie e disordine urbano) risale al secondo dopo guerra, nonostante una avanzata legislazione nazionale L. 1150/1942 che ambiva a fare bene i piani, e nonostante si conoscessero gli effetti perversi sin dall”800 (Hans Bernoulli, 1876-1969). L’evidenza patologica si ebbe con la sconfitta della proposta di riforma urbanistica (Sullo, 1962). Il ceto dirigente italiano scelse la teologia liberista per rubare risorse allo Stato ed accumularle facilmente nelle tasche private (circa 800/1000 miliardi di euro; Blečić, Lo scandalo urbanistico 50 anni dopo, FrancoAngeli, 2017), cioè di chi influisce sulle scelte pianificatorie delle trasformazioni urbanistiche. Un dato inquietante rilevato dall’ANAC nel Rapporto 2020 dice che fra i settori più colpiti dalla corruzione il 74% riguarda gli appalti pubblici. Nella letteratura tali fenomeni speculativi – disordine spaziale e istituzionale – sono associati anche al carattere criminogeno del ceto dirigente che ha la forza di influenzare e determinare le scelte politiche dei piani, agendo come «soggetto politico e referente culturale, in grado di organizzare un proprio modo di produzione» (D. De Leo, Mafie&Urbanistica, FrancoAngeli, 2015). Queste scelte, col trascorrere dei decenni, hanno deformato la struttura capitalista italiana stimolando la crescita delle rendite parassitarie ma penalizzando la capacità produttiva del sistema Paese. La rendita è la classica accumulazione capitalista sganciata dal lavoro, e questo fenomeno si è diffuso in tutta Italia per l’eccessiva presenza di seconde, terze abitazioni creando un corto circuito sociale ed economico.

Da ciò possiamo cominciare a desumere e riconoscere il fatto che i problemi nelle città italiane non derivano tanto dalle leggi ma dalla condotta delle istituzioni politiche, e non dal fatto che si voglia imporre una strategia o una pianificazione ma dall’assenza di valori costituzionali e di piani fatti bene, edulcorati e condizionati proprio dalle famigerate rendite parassitarie.

Nel resto d’Europa, i ceti dirigenti hanno preferito conservare l’approccio socialista (pubblicistico), sia formando adeguatamente la pubblica amministrazione e sia sviluppando capacità di governare il meccanismo della rendita, tassandola adeguatamente con il recupero diretto dei plusvalori ma progettando corretti piani urbanistici, con densità equilibrate e servizi di prossimità. Ad oggi, il modello migliore sembra essere “SoBoN” di Monaco di Baviera, attraverso una adeguata e normale regia pubblica che pianifica e concorda gli interventi di rigenerazione urbana, e preleva una corretta tassazione della rendita (recupero diretto del plusvalore fondiario) per costruire la “città pubblica” con servizi di welfare urbano e sociale. Il problema urbanistico campano è tutto qui: l’incapacità di costruire adeguatamente la “città pubblica” (standard e servizi) rispettando l’enorme valore ambientale esistente (paesaggio e patrimonio storico).

L’effetto di deregolamentare il regime giuridico dei suoli trascurando la scienza dell’urbanistica creò danni economici per lo Stato e disuguaglianze territoriali, ma ciò fu limitato nelle Regioni di sinistra che scelsero di controllare la rendita e potenziarono gli standard utilizzando la disciplina urbanistica, tant’è che esistono territori più o meno pianificati. Quelle Regioni che scelsero maggioranze politiche comuniste/socialiste oggi ereditano città attrezzate meglio con insediamenti urbani più progrediti, accoglienti ed attrattivi, sfruttando anche l’usurpazione di un’iniqua ed ingiusta distribuzione delle tasse che favorisce alcune aree (pianura padana) a danno di molte altre (Sud e non solo). Queste differenti ed opposte scelte politiche creano i primi grandi divari territoriali che stimolano l’emigrazione. La Regione Campania è fra i territori meno pianificati e maggiormente distrutti dai processi speculativi, nonostante la straordinaria bellezza del patrimonio costruito ereditato, poiché l’esplosione urbana avvenuta dal secondo dopo guerra in poi ha catturato ed avvolto secoli di storia.

ISTAT, lo spopolamento del Sud con il calo demografico e l’emigrazione dei giovani, 2023.

Dal secondo dopo guerra in poi le istituzioni campane hanno dimostrato una incapacità nell’applicare i diritti costituzionali ribaditi nel famoso DM 1444/68, una scarsa tutela delle caratteristiche paesaggistiche, naturali, storiche, e scarsa tutela delle zone rurali favorendo un’espansione senza limiti che ha creato aree urbane estese determinando l’obsolescenza dei confini amministrativi; poi a partire dagli anni ’90 sono iniziati i fenomeni di contrazione demografica; mentre le amministrazioni non hanno saputo governare i fenomeni di concentrazione e dispersione delle attività e delle funzioni che determinano i flussi di persone e merci. La globalizzazione ha favorito la contrazione demografica nei comuni centroidi mentre l’eccessiva concentrazione ha costruito agglomerati congestionati con gravi carenze di standard nei quartieri (zone consolidate) ed alta dispersione (periurbano e rururbano), che favorisce disuguaglianze territoriali intollerabili, e sono altrettanto noti i fenomeni di abusivismo edilizio, rischio sismico ed idrogeologico che diventano drammatiche emergenze per l’assenza di prevenzione primaria.

Di fronte a tale eredità complessa e complicata, ed anche criminale, non si ha il coraggio di proporre cambiamenti radicali, ma si immagina che i soggetti privati siano guidati da un’etica ed un senso di responsabilità migliori di chiunque altro. Si crede che i soggetti economicamente più forti debbano indirizzare le scelte politiche per concedere, in maniera paternalistica, la costruzione dei diritti costituzionali. La storia urbana italiana dimostra in maniera inequivocabile che il famigerato mercato è stata la favola raccontata alle masse per arricchirsi a danno della collettività, e tutt’oggi tale narrazione viene propinata senza alcun pudore.

Nonostante ciò non si deve credere che ogni investitore o soggetto attuatore sia uno speculatore perché non è così, ed in Campania sembra mancare la volontà politica ed istituzionale nel realizzare un serio coordinamento pubblico capace di ottenere l’interesse generale affrontando i problemi urbani (carenza di servizi), sociali ed ambientali degli abitanti costretti a sopravvivere, in numerosi ed estesi “brani urbani”, in disordinati agglomerati di mera merce edilizia privi o carenti di servizi. Il paradosso italiano è che le aree urbane che necessitano di reali e concreti progetti di rigenerazione urbana sono quasi tutte al Sud, ma le istituzioni appaiano del tutto incapaci di applicare la Costituzione, e di liberare la creatività dei progettisti, per restituire diritti a quegli abitanti, costretti ad emigrare, ancora oggi, per vivere più dignitosamente.

Il D.L.R. Campania n.369 del 19/06/2023 modifiche alla L.R. Campania 16/2004 “Norme sul governo del territorio” con un ritardo di 28 anni (riforma INU 1995) si adegua agli indirizzi “strutturali” (Piano Strutturale Urbanistico, PSU) ed “operativi” (Programmi Operativi, P.O.) della pianificazione urbanistica (art. 22 e 23). I livelli sono due: strutturale ed operativo con un sottolivello attuativo (Piani Attuativi, PA), ed infine, ovviamente il Regolamento Urbanistico Edilizio (RUE). Il livello strutturale del piano (PSU) indica le destinazioni d’uso, individua gli indici e i parametri di densità, gli ambiti di intervento ed i fabbisogni pregressi non soddisfatti in termini di dotazioni ecologiche, attrezzature e servizi di interesse collettivo, e le potenzialità insediative di riuso, rigenerazione e densificazione all’interno del territorio urbanizzato. Se da un lato la norma ambisce a “recuperare il tempo perduto” dall’altro lato l’indirizzo appare programmatorio-strategico anziché della pianificazione che interviene sull’intero territorio comunale ma non focalizza i problemi urbani specifici della Campania. La norma, paragonata a quella delle Regioni Toscana, Lombardia ed Emilia Romagna, appare carente sotto il profilo culturale, soprattutto dal punto di vista “territorialista” trascurando concetti come “patrimonio territoriale“, “invarianti strutturali” e “statuto del territorio“, così si limita a copiare alcuni indirizzi europei e nazionali di carattere strategico, ma quella campana non regolamenta la creazione di un quadro di conoscenza di tutto il territorio, cioè non indica l’analisi e la valutazione dei tessuti urbani esistenti, ma si affida ad un elenco di buone intenzioni (art.2). La Regione Toscana ha una legge sul governo del territorio (L.R. 65/2014 aggiornata nel 2023) scritta in 9 Titoli e 256 articoli; mentre la norma campana (L.R. 16/2004 in fase di aggiornamento) è articolata in soli 3 Titoli e 50 articoli. Oltre alle differenze sui principi (patrimonio territoriale, invarianti strutturali, statuto del territorio), la Toscana norma nel Titolo II procedure e partecipazione con 27 articoli; nel Titolo III con 17 articoli norma gli istituti della collaborazione (accordi di pianificazione e Conferenza paritetica); e nel Titolo IV con 30 articoli la tutela del paesaggio (territorio rurale) e la qualità del territorio (qualità degli insediamenti); nel Titolo V con 42 articoli troviamo gli atti di governo del territorio e la rigenerazione urbana e nel Titolo VI troviamo l’attività edilizia. La Regione Campania norma in un solo Titolo (II) e 30 articoli ciò che la Toscana norma con ben 4 Titoli (V, VI, VII, VIII) in 133 articoli. Le differenze estensive sono troppo ampie per normare la stessa materia; forse la Toscana ha esagerato oppure la Campania è troppo riduttiva. In Campania si trascura la condivisione e pubblicizzazione di una approfondita banca dati informatizzata degli insediamenti urbani, sinonimo di conoscenza condivisa a tutti. C’è una scarsa focalizzazione sulle strutture urbane estese e l’ennesima sottostima del disordine urbano esistente.

Dal punto di vista del dimensionamento dei piani e dei diritti costituzionali, la norma campana (art. 31) si limita a confermare lo standard minimo previsto dal DM 1444/68, appena 18 mq/ab, mentre altre Regioni sono arrivate a 30 mq/ab già molti anni fa, e la stessa Regione Campania negli anni ’70 prescriveva 30 mq/ab. Questa scelta riduttiva degli standard è in contraddizione con gli stessi obiettivi del disegno di legge che chiede il «rafforzamento del verde e degli spazi urbani» (art. 2). Dal punto di vista dell’attuazione la norma prevede la perequazione di comparto (artt. 32 e 33) e non quella diffusa.

La norma chiede ai Comuni di contenere il consumo di suolo agricolo limitando le espansioni per preferire interventi rigenerativi dentro le zone consolidate, e tutto è ciò è auspicabile [evitare di consumare altro suolo] ma emergono subito difficoltà da superare poiché la realtà campana abbonda di zone congestionate ed affollate, che necessitano di essere decongestionate per fare spazio a standard di quartiere assenti. In Campania, com’è noto, insistono numerosi centri urbani a rischio vulcanico. Il D.L.R. intende continuare sul piano della “semplificazione” dei processi di trasformazione urbana scommettendo sull’interesse dei soggetti privati nel programmare nuove lottizzazioni private; la norma sembra voler dire: la “semplificazione” (in taluni casi permesso di costruire convenzionato e SCIA) può fare a meno della corretta pianificazione urbana, per preferire e continuare con un approccio di programmazioni strategiche (c. 3 art. 3) suggerendo ai Comuni un elenco di “azioni” (art. 2) da adottare (azioni condivisibili) ed attrarre gli investitori privati (c. 2 art. 33 ter) che potranno presentare un proprio “programma operativo” sfruttando gli incentivi (c. 7 art. 33 quater), ed accelerando tali processi attraverso la “dichiarazione di pubblica utilità”.

Lo scopo dell’urbanistica non è il profitto dei privati ma costruire diritti per tutti gli abitanti, e l’approccio teologico liberale ampiamente diffuso in Italia crede che l’indirizzo strategico dei piani possa ottenere risposte adeguate e in tempi più rapidi.

La rigenerazione urbana è prevista dal c. 9 bis art. 23 (D.L. 314/2022) sempre attraverso l’approccio strategico ed un elenco di “azioni prioritarie” da progettare; mentre nel comma 9 ter dell’art. 23 continuano le gaffe culturali credendo che gli incentivi, i premi e l’innovazione tecnologica determinano qualità architettonica ed urbanistica. Il comma 9 octies dell’art. 23 intende favorire i trasferimenti di volumi degli edifici posti in aree ad alto rischio idrogeologico da frana e da alluvione attraverso l’incremento volumetrico del 50% dell’indice fondiario per l’edilizia residenziale. L’incentivo serve a sostenere la fattibilità economica degli interventi, e non è negativo in sé. La rigenerazione urbana potrà essere attuata nei quartieri residenziali degradati, aree dismesse e periferie, attraverso P.O. (art. 33 quater).

La norma introduce regole per favorire interventi di Edilizia Residenziale Sociale (art. 48 bis), e per gli interventi di sostituzione edilizia nelle aree dismesse bisogna destinare almeno una quota del 40% della volumetria lorda preesistente e ricostruita per l’ERS (9 decies art. 23).

Dal punto di vista della trasparenza informatica (art. 17), nonostante si millanti una condivisione, il geoportale della Regione Campania non presenta una completa condivisione di dati informatici circa gli insediamenti urbani come fanno altre Regioni (Toscana, Emilia Romagna, Lombardia…). L’assenza di dati condivisi è un evidente ostracismo ed un enorme danno pubblico poiché limitando la capacità creativa e progettuale delle libere professioni si limitano i diritti collettivi di tutti.

La recente attività edilizia campana continua a costruire la negazione della città, perché non si elabora un corretto assetto del territorio con un disegno di suolo, e quindi si assiste alla costruzione di nuovi edifici multipiano a torre scompaginati, a volte isolati, nelle forme aperte sia nelle espansioni periferiche, e sia riempendo alcuni vuoti urbani dentro le zone consolidate aumentando le congestioni esistenti. E queste recenti lottizzazioni spesso non hanno contribuito a costruire la “città pubblica”, poiché gli stessi Enti pubblici sembrano incapaci di applicare l’interesse pubblico. Questa cattiva gestione urbana è alla base delle disuguaglianze economiche e sociali, che producono effetti già noti: la concentrazione di ricchezze parassitarie che sfruttano le rendite, il disvalore della città stessa perché non produce ricchezza distribuita e quindi si stimola l’espulsione di importanti risorse umane che emigrano verso Sistemi Locali del Lavoro gestiti meglio, perché più attrattivi e più sostenibili.

Nella norma si leggono altre gaffe culturali poiché si confonde e ci si affida alla “programmazione” (economica) anziché alla pianificazione, e poi si crede che la rigenerazione urbana si possa realizzare anche attraverso il recupero delle superfetazioni (locali tecnici, art. 45 ter).

In Italia prosegue un limite culturale viziato dalla vecchia scelta liberista, e pertanto il ceto dirigente continua a svalutare il sapere, la conoscenza, per favorire l’egoismo di settori privati che usurpano i diritti collettivi sfruttando il territorio. La teologia preferisce il carattere programmatorio e non pianificatorio perché lo giudica più veloce, ma si tratta di una scelta politica ideologica sia per accontentare l’immagine propagandistica dei Sindaci che promettono interventi puntuali da realizzare entro il mandato elettorale, e sia per sostenere gli interessi privati. Questa scelta è ampiamente radicata tant’è che la legge sui contratti pubblici prevede il partenariato pubblico privato nella programmazione e realizzazione delle opere pubbliche (c. 2 art. 37 D.Lgs. n.36/2023). Tutto ciò non è sconveniente ma in Campania la maggioranza dei Comuni non riesce ad ottenere significativi miglioramenti della morfologia urbana per assenza di cultura fra gli amministratori circa la corretta pianificazione urbana.

La mentalità “programmatoria” è stata trasferita ai funzionari (ormai meri burocrati) che recepiscono pedissequamente gli indirizzi europei e riducono il ruolo dell’Amministrazione alla sola compilazione di schede e bandi per ottenere fondi. Non adottando più piani urbanistici rispondenti a idee, a valori identitari, territoriali, ci si limita a compilare carte; ed in tal senso l’organo politico appare persino inutile. Gli Enti locali campani appaiono carenti anche in questo aspetto “programmatorio”, ragion per cui non si ottengono risorse, ma la politica dovrebbe pensare ed esprimere idee di valore (caratteri identitari dei luoghi e del territorio per stimolare nuova occupazione utile), e poi decidere, al fine di applicare gli indirizzi della Costituzione, invece per assenza di piani fatti bene, accade che servizi e diritti sono negati e sottratti stimolando l’emigrazione verso il Nord e l’estero di giovani laureati, e studenti universitari. In assenza di cultura della corretta pianificazione urbanistica, ciò che resta è la mera accumulazione capitalista attraverso volgarissimi e violenti piani edilizi che realizzano la negazione della città, fra l’altro creando un disvalore.

A partire dagli anni ’80, la classe dirigente italiana attraverso norme e regole ha scelto di sminuire la figura professionale dell’architetto-artigiano (e del libero professionista), la stessa che ha dato lustro ed identità all’Italia intera. La teologia liberale chiama tutto ciò “competitività di mercato”, ma gli strumenti giuridici adottati assomigliano alla società medioevale che si basava sul vassallaggio. Il legislatore italiano, da molti anni ormai, ha condotto e vinto una guerra incivile contro le libere professioni, per addomesticarle, snaturarle, umiliare e mortificarle, per sfruttare a basso o bassissimo costo le competenze tecniche. Il famigerato D.Lgs n.36/2023 conferma l’edulcorazione culturale dell’operatore economico (un tecnico non è un operatore economico) mentre all’interno della pubblica amministrazione si sfrutta l’impiego di un tecnico ma sottopagato (il cosiddetto istruttore tecnico/RUP) per assolvere a tutti i compiti di indirizzo, programmazione, progettazione, controllo, esecuzione e gestione del processo delle opere pubbliche realizzabili anche con i subappalti a cascata. Le opere pubbliche sopra soglia sono progettate da operatori economici, spesso da archistar simili a multinazionali della progettazione.

La scommessa è quella di credere al mercato e quindi continuare a sottovalutare i privilegi egoistici della rendita parassitaria poiché c’è il serio rischio che i privati potranno attribuirsi da soli gli incentivi previsti ed approvati dalla Giunta comunale (cioè dal Sindaco). La maggioranza politica scommette su nuovi cicli economici attraverso l’iniziativa privata, ma nei Paesi civili e normali (progrediti), le istituzioni locali rappresentano correttamente l’interesse generale proprio attraverso la pianificazione, cioè fanno l’opposto di quello che accade in Campania.

La speculazione edilizia

Quali sono le conseguenze della speculazione edilizia? Prima di tutto bisogna raccontare cosa si intende per speculazione edilizia. Nel corso dei secoli e soprattutto alla nascita della società moderna ideata dalla cultura politica liberale, in opposizione alle monarchie, accrebbe la consapevolezza di poter accumulare denari senza lavorare sfruttando la rendita, prima agricola e poi urbana. Nella consuetudine odierna, viene dato per scontato il profitto derivante dalla rendita, e ormai quasi nessuno mette in dubbio il fatto che sia immorale perché distrugge le comunità. Nei secoli scorsi, quando ci si accorse degli effetti negativi di queste convenzioni economiche sociali, cioè l’aumento di valore economico di suoli poiché destinati all’urbanizzazione, subito si disse che tale convenzione creava un profitto determinato da scelte politiche e non dal lavoro, e pertanto era necessario porre rimedio per evitare di distruggere le comunità locali. L’usurpazione del profitto della rendita fondiaria è tecnicamente un vero e proprio furto allo Stato, stupidamente reso legale. In Europa, la storia ci insegna che le soluzioni efficaci si limitano a poche aree geografiche (ad esempio la virtuosa Olanda, e i modelli di cooperative circa le famose garden city, e poi le new town), mentre nel Sud dell’Europa la rendita è il motore economico dell’urbanizzazione nelle mani delle imprese private. Per eliminare rendite di posizione e rendite parassitarie c’è solo la soluzione radicale, e cioè che la proprietà dei suoli sia dello Stato e ne conceda l’uso attraverso il diritto di superficie, cosicché la rendita è incassata dallo Stato e non più dai privati. Questa consapevolezza, figlia di una mera convenzione sociale ed economica, è alla base del potere locale ma gestito in maniera criminale attribuendo la rendita parassitaria (furto allo Stato) in maniera clientelare. La speculazione edilizia nasce da questa consapevolezza del “mercato”, e cioè influenzare le scelte dei piani regolatori per incassare il profitto delle rendite frutto di una mera scelta politica, e non di un criterio di merito perché non esiste. Attraverso questa consuetudine viziosa, si può realizzare profitto dal cambio di destinazione d’uso dei suoli, da agricolo a edificabile (rendita assoluta), e poi si può trarre profitto dalla vendita delle superfici edificate (rendita differenziale) e nel caso specifico oggi assistiamo a una totale deregolamentazione e assenza di controlli delle quantità di superfici immesse nel mercato immobiliare, ed è questa la speculazione immobiliare. Il prezzo finale di questi profitti estratti da posizioni di vantaggio, assunte senza criteri di merito, vanno a danno della collettività. Nell’attuale deregolamentazione, attraverso la famigerata “urbanistica contrattata”, è possibile speculare attraverso il capitalismo urbano poiché non si rispetta né la Costituzione e né la legge urbanistica nazionale ma si trascurano appositamente le analisi urbanistiche e/o le ipotesi di piano, oppure si edulcorano i calcoli di dimensionamento dei piani stessi, e/o se fatti bene si ignorano subito dopo, durante la fase attuativa dei piani stessi ove proprietari e immobiliaristi chiedono indici urbanistici per incassare la rendita differenziale oltre il dovuto, oltre il pensabile, e tutto ciò per mera avidità sfruttando l’antico meccanismo della rendita perché garantisce profitti immensi senza impegno. L’autorizzazione legale è concessa dai Consiglieri comunali, che detengono il potere di adottare piani e varianti, e questo ceto politico poco preparato, o non sa cosa fa oppure è d’accordo. Le conseguenze di questa mentalità truffaldina sono disastrose e sono note da secoli. Sin dai primi anni del Novecento, la classe borghese mise in pratica i meccanismi viziosi della rendita per accumulare capitali e così in tutte le città italiane, appena si ebbe l’esplosione demografica, si realizzarono enormi concentrazioni di capitali nelle mani del ceto sociale più influente, di fatto creando le prime disuguaglianze territoriali. Una seconda accelerazione, molto più imponente, si ebbe nel secondo dopo guerra per la ricostruzione delle città, anche in quell’occasione, la medesima classe borghese sfruttò il meccanismo e tornarono a realizzarsi nuove disuguaglianze economiche e sociali. In questa fase si realizzò un peggioramento concreto della qualità di vita dei ceti economicamente più deboli, perché l’avidità della rendita mise da parte la corretta pianificazione urbanistica. Ancora oggi, i danni sociali, economici e ambientali di espansioni urbane mal realizzate (fra gli anni ’50 e ‘80) perché non ragionate, sono a carico dello Stato e delle comunità costrette a vivere in quartieri dormitorio e degradati. Possiamo affermare, senza timore di essere smentiti, che all’aumento della ricchezza, cioè la crescita del PIL, fra l’altro concentrata nelle mani di poche famiglie (proprietari terrieri e costruttori), non necessariamente corrisponde un aumento della qualità vita per tutti gli abitanti, e nel caso delle speculazioni edilizie vi è la certezza di un peggioramento delle condizioni di vita delle persone che usufruiscono della merce costruita. Esempi pratici quotidiani sono: l’assenza di scuole e servizi sanitari, l’alta densità urbana che crea affollamento, l’assenza di standard minimi nei quartieri, il traffico e i centri urbani congestionati e inquinati, l’assenza di verde nei quartieri e l’assenza di biblioteche di quartiere, l’impossibilità di spostarsi a piedi e l’assenza dei servizi stessi raggiungibili a piedi. L’assenza di bellezza architettonica nei quartieri e costruzione di merci edilizie. Questo disordine urbano è figlio dell’assenza di un corretto disegno urbano, disprezzato dalla cultura politica liberal che ha scelto il laissez faire del mercato (la destra). Per l’Italia, si tratta di una scelta politica precisa realizzata dalla Democrazia Cristiana negli anni ’60, che ha negato il diritto di sviluppo umano a numerose generazioni distruggendo numerose città. Quanto vale il danno economico della rendita fondiaria? E’ difficile misurare con precisione l’appropriazione della rendita fondiaria ma è stato possibile fare una stima al ribasso, della sola edilizia abitativa (escludendo l’edilizia commerciale, turistica …), aggregando dati Istat e Banca d’Italia, e usando le superfici realizzate con la ricostruzione dei prezzi reali delle case e dei terreni. E’ stato stimato che dal 1961 al 2011, se lo Stato avesse applicato la riforma del regime dei suoli proposta da Fiorentino Sullo, avrebbe incassato un’enormità di circa 800/1000 miliardi di euro (Blecic, Lo scandalo urbanistico 50 anni dopo, Franco Angeli, pag. 19). Con questa stima abbiamo un ordine di grandezza verosimile della ricchezza incassata da poche famiglie, e questo valore costituisce la base delle disuguaglianze economiche e sociali ottenute sfruttando il potere politico e non il merito personale, tutto ciò a danno dello Stato sociale e dell’ambiente. Questa è la base della disuguaglianza determinata da reddito del capitale, che nel caso specifico si tratta di reddito attraverso rendite parassitarie, e nel corso dei decenni questo privilegio ha costruito una casta feudale che guadagna senza lavorare per aver rubato milioni allo Stato, e influenza le scelte politiche delle Amministrazioni locali. In tutte le città italiane esiste questa casta feudale.

Per quanto riguarda il disordine urbano, c’è da dire che non tutte le città italiane hanno subito la medesima sorte, anzi, dove c’è stata cultura urbanistica per contenere l’avidità degli speculatori, sono stati costruiti quartieri dignitosi ed oggi sono perfettamente vivibili poiché dotati di servizi.

Qui sotto le immagini di Salerno, città costruita dalla speculazione edilizia. In che modo si può leggere questa degenerazione? Attraverso il filtro della qualità urbanistica e le sue analisi classiche. Lo sviluppo urbano di Salerno si realizza tutto nel secolo Novecento, fra gli anni ’30 fino agli anni ’80. Le regole compositive dell’urbanistica nascono prima della legge nazionale (L. 1150/1942) e indicano come si costruisce correttamente una città, cioè la tecnica urbanistica insegna che il disegno urbano si realizza con la qualità dello spazio pubblico. Il disegno deve prevedere un corretto equilibrio fra spazio pubblico e privato, con ampi spazi verdi, con limiti di densità e limiti di altezze degli edifici, con strade progettate secondo la loro funzione e servizi raggiungibili a piedi (la cosiddetta città a misura d’uomo). Le aree evidenziate nelle immagini sottostanti mostrano come lo spazio sia interamente utilizzato dalla merce edilizia, con grave carenza persino di strade adeguate, oltre al fatto che c’è una completa assenza di verde di quartiere e dei servizi. La città ha dovuto ricavare i servizi presso sedi improprie, cioè molti servizi sono allocati in edifici privati progettati per civili abitazioni, e solo in taluni casi troviamo edifici progettati ad hoc per le scuole. Quando fu pubblicato il famoso DM 1444/68, i Comuni furono costretti a recuperare gli standard minimi mancanti, cioè parcheggi, verde, scuole e attrezzature collettive (culturali, sociali, assistenziali, sanitarie, amministrative). Salerno, per scelta politica, non ha mai recuperato tutti gli standard mancanti nelle aree costruite dalla speculazione, e tutt’oggi paga il prezzo delle rendite di posizione.

Salerno processi speculativi
Salerno e i suoli coinvolti da processi speculativi

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Salerno, zona orientale e i suoli coinvolti da processi speculativi

La scelta politica di rinunciare alla corretta pianificazione urbanistica, e quindi la scelta di deregolamentare la rendita, ha in sé un meccanismo politico molto noto: il seme della corruzione morale e materiale poiché il facile accumulo di capitali nelle mani di costruttori e immobiliaristi può favorire sistemi corruttivi. Nell’epoca delle nuove tecnologie e delle giurisdizioni segrete, cioè i paradisi fiscali e i modelli off-shore, tali strumenti possono essere adoperati per nascondere la corruzione e i profitti stessi degli investimenti immobiliari. Sono almeno due gli esempi viziosi e persino criminali che si nascondono dietro i processi dell’urbanistica contrattata, che cela i reali interessi nel costruire merci edilizie ove non servono. Il primo esempio, è quello raccontato, costruire per accumulare capitali senza occuparsi di costruire i servizi necessari alla città pubblica, e il secondo è il riciclaggio di denaro realizzato dall’evasione, dalla vendita di droghe, armi etc. La regia di queste operazioni sono le banche che possono, se lo desiderano ma violando le leggi, aiutare i proventi realizzati illecitamente a diventare leciti. In che modo entra in gioco il mondo off-shore? E’ semplice, attraverso il solito meccanismo del prestanome che si intesta la società finanziaria dell’investimento con sede in un’area off-shore, costui potrebbe avere come suo socio occulto, il delinquente che ha evaso milioni, oppure anche il Sindaco del Comune dove si intende realizzare la trasformazione urbana. Il politico avrà solo il problema di reinvestire il profitto altrove, ovviamente, oppure può approfittare del famigerato scudo fiscale. Questa congettura appena esposta è una spiegazione logica a talune trasformazioni urbanistiche avvenute in Europa, perché queste non trovano alcuna giustificazione attraverso gli occhi della pianificazione urbanistica, perché palesemente irrazionali. Determinate operazioni immobiliari sono persino fallite, e sono rimaste invendute ma sono nelle mani delle banche alle quali assegnano un valore e sono garanzia del proprio capitale.

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Elaborazione personale.

Conclusione: contrariamente a quanto si crede illusoriamente, la società capitalista non ha ridotto le disuguaglianze, non ha costruito opportunità per tutti ma ha creato opportunità per pochi rendendoli ricchi sfruttando gli altri e usurpando risorse naturali. La ricchezza capitale è stata concentrata nelle mani di poche famiglie grazie alle scelte politiche autoritarie e ingannevoli, applicando la cultura economica neoliberale (la destra), una sorta di evoluzione della società feudale costruita sul vassallaggio. La società moderna appare come una distopia cinica ma con immorale ironia: la rivoluzione liberale ha costruito una società illiberale, attraverso il privilegio offerto dal capitale concentrato nelle mani di pochi, che di fatto ripristina le condotte delle monarchie, ossia caste chiuse e autoreferenziali, e territori feudali. Ancor di più, studiando affondo la storia del capitale, si svela un altro mito della religione capitalista: non è più il lavoro a rendere ricco un individuo ma lo sfruttamento delle rendite parassitarie (eredità), ciò è particolarmente vero nel capitalismo urbano. Le tecnologie odierne (robotica e internet) dimostrano quanto tutto ciò sia realtà (non è il lavoro a creare enormi quantità di capitali), poiché la concentrazione di capitali si realizza attraverso la finanza (il valore fittizio creato dal mercato) e l’informatica. Il capitale si sgancia dal lavoro.

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Speculare per legge

Se la guida politica della Giunta regionale campana da cattivi consigli ai comuni su come sfruttare gli immobili abusivi, in Emilia Romagna si va ben oltre poiché propone una legge per abbandonare la pianificazione urbanistica e abbracciare la speculazione consentendo ai soggetti privati di fare affari a danno della collettività in contraddizione coi principi della legge urbanistica nazionale e della Costituzione. Una Regione e un territorio che negli anni ’70 ha lottato contro la speculazione fondiaria suggerita dalla Democrazia Cristiana, oggi propone una legge regionale che sembra riemergere dal passato sostenendo le becere logiche neoliberali furiere di illegalità e di distruzione del territorio.

Il territorio consegnato alla speculazione fondiaria. La giunta dell’Emilia-Romagna il 27 febbraio ha deliberato il disegno di una nuova legge urbanistica regionale, proponendolo all’approvazione dell’Assemblea legislativa. Secondo l’assessore alla programmazione territoriale Raffaele Donini, che l’ha presentata, la nuova legge sarebbe fondamentale per affermare il principio del consumo di suolo a saldo zero, promuovere la rigenerazione urbana e la riqualificazione degli edifici, semplificare il sistema di disciplina del territorio, garantire la legalità. Sono slogan che mascherano l’obiettivo essenziale del disegno di legge, ovvero l’impianto di un regime privilegiato a favore delle iniziative immobiliari private (Ilaria Agostini (a cura di), Consumo di luogo,  2017, pag. 15).

Enzo Scandurra: «Ironia della sorte (ma non troppo); l’Emilia Romagna, un tempo regione modello per l’urbanistica italiana, si appresta ad approvare una legge regionale (Disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio, n° 4223), che basandosi sulle parole d’ordine di rigenerazione/riqualificazione nelle città storiche, conclama la definitiva mutazione genetica di questa disciplina. Che da sapere finalizzato a limitare e contenere gli effetti negativi di uno sviluppismo, si trasforma in fiancheggiatrice del più bieco sfruttamento del territorio e delle città storiche. L’elemento cardine dello sviluppo del territorio non spetta infatti più al piano regolatore comunale, ma agli accordi operativi derivanti dalla negoziazione fra l’amministrazione comunale e gli operatori privati che presentano al comune un’apposita proposta da approvare in 60 giorni, tempo proibitivo per i comuni». […]«Perché la proposta di legge nei fatti prevede un doppio regime urbanistico. Da una parte le iniziative immobiliari di imprese e privati godrebbero di un canale privilegiato; dall’altro le esigenze di famiglie ed attività economiche restano affidate ai vecchi dispositivi. Una proposta di legge più che inutile, dannosa, che consegnerebbe il territorio agli interessi della speculazione fondiaria e toglierebbe la sovranità ai cittadini, gli unici attori indispensabili della democrazia». […]«In sintesi tre sono i pilastri che costituiscono la più micidiale innovazione urbanistica mai pensata: 1) accordi operativi con i privati in variante ai piani urbanistici vigenti; 2) incentivi ai diritti edificatori (mai messi in discussione) definiti dai piani; 3) eliminazione degli standard urbanistici tramite l’invenzione degli standard differenziati. Tre pilastri dell’urbanistica neoliberista fondativi della subordinazione del pubblico agli interessi privati».

Lorenzo Carapallese: «[…] La rigenerazione urbana è invece rapportata solo all’incremento di densità edilizia per arginare lo sprawl urbanistico che è stato agevolato a piene mani negli ultimi 20 anni. Come, con quali criteri, in che misura si deve appunto intendere la densità edilizia? […] Qui la legge non dice nulla: l’importante non è l’urbanistica, ovvero il cercare di capire come ed in che modo la città del prossimo futuro ed i rapporti tra spazi pubblici, privati, mobilità, paesaggio, convivenza urbana, relazioni umane, commercio, produzione e welfare debbono essere reinterpretati. […] L’importante per questa legge pare essere il costruire, semplificare il più possibile con l’accetta, facendo credere che così si rimette in moto l’economia nonostante le migliaia e migliaia di edifici residenziali vuoti, aree artigianali ed industriali deserte, centri commerciali in affanno, alle quali se ne aggiungeranno ancor di più (senz’altro anche sulla carta) con il probabile effetto di far crollare ancor di drammaticamente i valori immobiliari, ipotecari e collaterali. […] Questa legge edilizia (non urbanistica) vuole ottenere solo una libertà di costruire dovunque e comunque, confermando altresì le enormi quantità di aree già esistenti nei piani e non messe in discussione. Aree che sono il frutto di previsioni insediative abnormi, solo speculative mai contestate ne dalla Regione che dalle Province in nome di un falso rispetto dell’ autonomia locale. Quasi una ammissione che si è governato male il territorio negli ultimi venti anni, favorendo ampliamenti eccessivi di aree edificabili su suoli agricoli di eccellenza, solo parzialmente per necessità ma soprattutto per favorire speculazione».

Il territorio è trattato come merce per favorire le speculazioni immobiliari e finanziarie, e non si ha il coraggio di proporre l’uscita dal capitalismo per pianificare correttamente le aree urbane. Lo scopo dell’urbanistica non è fare profitto, ma costruire diritti a tutti gli abitanti. I cittadini non avendo più un partito di riferimento capace di interpretare un cambio dei paradigmi culturali, subiscono la distruzione delle città e degli ecosistemi. Gli effetti sociali di piani attuativi speculativi sono noti: gentrificazione e dispersione urbana. Questo è il regno del neoliberismo.

Eddyburg commenta: «l’autentico intento dalla proposta legge sta dunque nell’impianto di un doppio regime urbanistico, in cui le iniziative immobiliari poste in atto da imprese di costruzione e promotori godrebbero di privilegi e arbitrio inusitati, lasciando le esigenze di famiglie e attività economiche soggette ai vecchi dispositivi, del cui rinnovamento è in certa misura avvertita la necessità, ma non sono nemmeno intravisti i modi. Con queste finalità il disegno di legge non esita a porsi in frontale contrasto con l’ordinamento nazionale, e violare con ciò la Costituzione. La diffusione di leggi analoghe in altre regioni andrebbe a soverchiare i fondamentali istituti di tutela e disciplina del territorio nel nostro paese, dalla periferia riuscendo in ciò che ripetuti tentativi parlamentari hanno fallito».

Nella Regione che ha avuto l’ambizione di proporre una perequazione che sapesse applicare l’uguaglianza di mercato, si fa marcia indietro scegliendo la disuguaglianza pianificata, abdicando e rinunciando alla corretta morfologia urbana, e consegnando ai soggetti attuatori dei piani attuativi l’opportunità di incassare i valori immobiliari arbitrari determinando opportunità speculative finora non consentite, e quindi si ha il serio rischio di realizzare i peggiori insediamenti urbani. Un ulteriore rischio è che altri Consigli regionali facciano il copia incolla di una cattiva legge urbanistica, prefigurando un attacco al territorio mai visto prima, e tutto ciò nonostante sia ormai matura la necessità improrogabile di ridurre il consumo di suolo e di programmare l’efficienza energetica nelle città, così come rigenerare i tessuti esistenti.

Non è una novità il fatto che politici in cattiva fede, imparando dalla pubblicità, usino termini e parole per imbrogliare le persone. Un falso clamoroso fu l’invenzione del termine termovalorizzatore per chiamare gli inceneritori. Oggi la strategia si ripete per l’urbanistica, e così la legge si inventa interventi di “desigillazione” per tendere al consumo di suolo zero. Cosa significa desigillazione? Secondo questi politicanti, demolendo i volumi inutilizzati e rimuovendo l’impermeabilizzazione del suolo è possibile ripristinare un’area precedentemente urbanizzata. La propaganda, facendo la somma fra l’espansione pianificata a la desigillazione, chiama questa operazione consumo di suolo a saldo zero. Siamo di fronte a una vera e propria mistificazione contraria alle leggi della natura. E’ noto che il territorio agricolo sia considerato risorsa non rinnovabile, poiché una volta rimossa la pelle della Terra (uno strato di soli 30-100 cm, luogo delle semine) per urbanizzare un’area, la natura per rigenerare se stessa, e appena 2,5 cm di suolo, deve attendere circa 500 anni (Paolo Pileri, Che cosa c’è sotto. Il suolo, i suoi segreti, le ragioni per difenderlo, Altreconomia, 2016). Da questa contabilità truffaldina – “consumo di suolo a saldo zero” – sono esclusi gli insediamenti produttivi “strategici”. Nella legge urbanistica dell’Emilia Romagna sono presenti evidenti provvedimenti normativi incostituzionali e contra legem poiché avversi ai principi della Legge Urbanistica Nazionale. E’ sufficiente leggere la totale deregolamentazione dei carichi urbanistici, e la volontà di togliere potere ai Comuni circa l’obbligo di pianificare attraverso le regole urbanistiche (individuare gli indici di fabbricabilità prima al livello operativo e mai dopo al livello attuativo) necessarie per costruire diritti e servizi; potere spostato ai soggetti privati. L’indirizzo privatistico della legge è quello di consentire a un soggetto privato, violando i principi della legge urbanistica nazionale, di indicare le capacità edificatorie di un’area, di fatto contraddicendo tutti i principi, le regole, le norme e le procedure sul mercato urbano, fino ad oggi contenuto a fatica. Allo scandalo di una legge incostituzionale si evidenzia il sostegno dei Sindaci per questo provvedimento irresponsabile, che addirittura firmano un appello affinché si faccia presto, firmano Merola (Bologna), Lucchi (Cesena), de Pascale (Ravenna), Drei (Forlì), Gnassi (Rimini), Muzzarelli (Modena), Tagliani (Ferrara), Vecchi (Reggio Emilia), Pizzarotti (Parma), Manca (Imola), Malpezzi (Faenza), Bellelli (Carpi). Il ceto politico locale agisce in maniera lobbistica, si conta e agisce contro la Costituzione e il sapere tecnico dei pianificatori che ha chiesto pubblicamente di cambiare una norma sbagliata.

La soluzione per porre fine all’ingiustizia e alla rapina, siede sul nuovo piano culturale bioeconomico capace di misurare i flussi di energia e materia, e che pone il territorio fuori dall’economia mercantile e finanziaria. Il suolo non è merce ma una risorsa limitata che consente agli ecosistemi di vivere. Il territorio è un bene e non una merce.

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Neoliberismo, rendita e speculazione

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Negli anni ’60 e ’70 la classe politica era decisamente divisa, e l’urbanistica è stata la tematica del conflitto politico più acceso con la vittoria dell’ideologia liberale, quando vinse la battaglia sul regime dei suoli sacrificando la proposta del Ministro Sullo (1962). Da un lato la visione costituzionale circa l’esproprio e l’utilità sociale della proprietà e dall’altro la visione liberale del laissez faire al mercato.

Prevalse l’ideologia capitalista liberale spazzando via la riforma che tutelava l’ambiente e di conseguenza la specie umana. Verso la fine degli anni ’80 e inizio anni ’90 si dissolve il partito comunista, lo strumento portatore di interessi generali circa il governo del territorio, e l’ideologia liberale non avendo più argini prosegue la sua cavalcata nella distruzione del territorio. Negli anni recenti (inizio nuovo millennio) si è avuta un’impressionante accelerazione circa il consumo di suolo agricolo, mentre il patrimonio esistente, storico e moderno arrivato a fine ciclo vita, è vittima dell’ignoranza e dell’incuria dei cittadini e di una classe dirigente politica incapace e inadeguata. Gli italiani non hanno più un soggetto politico di riferimento che sappia interpretare e applicare la conservazione del patrimonio esistente e il corretto utilizzo delle risorse naturali.

La pianificazione urbanistica è l’attività finalizzata all’individuazione delle regole da seguire per l’utilizzazione del territorio allo scopo di consentire un uso corretto e rispondente all’interesse generale. L’attività pianificatoria è discrezionale, cioè libera nei mezzi e vincolata nel fine, pena l’illegittimità dell’azione stessa e del suo risultato. Cos’è l’interesse generale? E’ l’applicazione dei principi costituzionali. I principi legati al governo del territorio sono espressi negli artt. 2, 3, 9 e 42. «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità»; «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana»; «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»; «la proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale». Negli ultimi 70 anni sono pochi i Comuni che hanno interpretato correttamente il mondato costituzionale dell’urbanistica, spesso ha prevalso la speculazione e pertanto ereditiamo aree urbane degradate.

Oggi mediocri arroganti, votati dai cittadini, occupano le istituzioni continuando a distruggere il territorio italiano. Anche se nelle istituzioni ci sono persone elette ma mediocri, costoro non possono prendere decisioni contro la Costituzione e contra legem. Fra pettegolezzi da bar, polemiche infantili e commenti da cabaret, l’avidità dei più forti economicamente decide le sorti del Paese. E così da Roma a Firenze, ancora una volta la rendita immobiliare consuma suolo solo per generare accumulazione di capitale. I politicastri che occupano le istituzioni ignorano i problemi sociali delle città, alimentano il famigerato fenomeno di gentrificazione e ghettizzano i ceti economicamente più deboli; tutto ciò attraverso il sostegno elettorale. Sembra assurdo ma non lo è, poiché la classe operaia non esiste più mentre i poveri votano per i propri carnefici, che una volta al potere eseguono gli ordini di coloro i quali hanno millantato di combattere.

Ancora oggi le città sono considerate merce e le trasformazioni urbane sono realizzare per aumentare la produttività delle imprese, e non per sostenere lo sviluppo umano. Le città sono merce, nonostante questo non sia neanche il dettato costituzionale e neanche della legge urbanistica nazionale. Il capitalismo è una forma sofisticata di razzismo basata sulle opportunità economiche, ed ha sfruttato la tecnica della pianificazione urbanistica per usurpare e allontanare i ceti meno abbienti dai territori che l’élite sceglieva per se, ciò è sempre esistito, poi nell’Ottocento la finanza affinò la fattibilità delle trasformazioni urbane per scaricare i costi prima sul nascente stato moderno, e poi sul cosiddetto libero mercato perseguendo due vantaggi tipici per i razzisti, impedire ai ceti economicamente più deboli di vivere in luoghi urbani meglio progettati e guadagnare senza lavorare attraverso la rendita.

Edoardo Salzano, Anna Marson ed Enzo Scandurra: «quanto sta accadendo a Roma – il caso della realizzazione del nuovo stadio – evidenzia in modo eclatante come l’urbanistica sia ormai relegata, dall’ideologia neoliberista dominante da tempo, a un ruolo subalterno e quindi miseramente perdente, rispetto alla centralità che un tempo possedeva nella progettualità riformista».

Scrive Vezio De Lucia: «l’imprudenza di Paolo Berdini non può trasformarsi in un viatico per l’approvazione dello Stadio. Il progetto che va sotto il nome Stadio della Roma è forse la più grossa speculazione fondiaria tentata a Roma dopo l’Unità d’Italia. Un milione di metri cubi a Tor di Valle, in una fragile ansa del Tevere non lontana dall’Eur, località difficilmente accessibile, servita solo dalla Roma-Lido, la peggiore ferrovia d’Italia. Un milione di metri cubi equivale a dieci volte il volume dell’Hilton, l’albergo su Monte Mario della Società generale immobiliare contro il quale, a metà degli anni Cinquanta, si mobilitò l’Espresso (che aveva pochi mesi di vita). «Capitale corrotta, nazione infetta» è il titolo dell’articolo di Manlio Cancogni che dette il via a una memorabile campagna giornalistica, politica e morale, contro il malgoverno urbanistico. All’Espresso si affiancò Il Mondo dove scriveva Antonio Cederna che nell’occasione coniò l’hilton, unità di misura della speculazione edilizia: un hilton = centomila metri cubi. […] Questo modo di fare politica si chiama trasformismo. Fu definita così la pratica politica sostenuta dal presidente del Consiglio Agostino De Pretis che, in un famoso discorso a Stradella nel 1882, si rivolse agli esponenti della destra affinché si trasformassero e diventassero progressisti. Da allora, il trasformismo, da De Pretis a Mussolini a Matteo Renzi al M5S, è diventata la più funesta malattia non solo della sinistra ma di tutta la politica italiana».

Giuliano Santoro: «non c’è ancora un via libera ufficiale alla cittadella che sorgerà a Tor di Valle col viatico del nuovo impianto, ma poco ci manca. Tanto che dopo giorni di attesa, l’assessore all’urbanistica Paolo Berdini annuncia le sue «dimissioni irrevocabili». «Mentre le periferie sprofondano in un degrado senza fine e aumenta l’emergenza abitativa, l’unica preoccupazione sembra essere lo Stadio della Roma», è il grido di dolore dell’ormai ex assessore».

A Firenze si presenta un progetto analogo, informa Ilaria Agostini: «un nuovo stadio. E a fianco una Cittadella Viola che fa gonfiare volumetrie e proventi. Metri cubi da costruire in project financing nei pressi dell’aeroporto in espansione (quello di Carrai e Eurnekian) che, a sua volta, scalza una vecchia lottizzazione oggi in mano alla Unipol. In un clima di land grabbing all’argentina. Tutto, o quasi, fuori dalla pianificazione generale».

Paolo Berdini si dimette a seguito del dialogo aperto fra la Giunta e i privati, e nel dare le dimissioni accusa l’organo politico di aver cambiato idea circa il progetto speculativo,«mentre le periferie sprofondano in un degrado senza fine e aumenta l’emergenza abitativa, l’unica preoccupazione sembra essere lo Stadio della Roma. Dovevamo riportare la città nella piena legalità e trasparenza delle decisioni urbanistiche, invece si continua sulla strada dell’urbanistica contrattata, che come è noto, ha provocato immensi danni a Roma».

Cos’è l’urbanistica contrattata? Nell’urbanistica contrattata la contrattazione tra i soggetti che hanno il potere di decidere delle operazioni di trasformazione urbana sostituisce un sistema di regole valide per tutti e definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica. Si manifesta quando l’iniziativa delle decisioni sull’assetto del territorio non viene presa dagli enti che esprimono gli interessi della collettività, ma in seguito alla pressione diretta o con il condizionamento, di chi possiede consistenti beni immobiliari: quando insomma comanda il proprietario degli immobili e non il Comune. Poiché il potere di decidere sull’assetto del territorio spetta, sulla carta, ai Comuni, allora quando i proprietari vogliono incidere sulle scelte sul territorio devono almeno fingere di contrattare le scelte con i rappresentanti di quegli enti. Si tratta di una questione di facciata.

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