Considerazioni sulla gestione delle città e sul D.G. Campania n. 369/2023

Considerazioni sulla gestione delle città e sulla Delibera di Giunta regionale Campania n. 369/2023 modifiche alla Legge Regionale (L.R.) Campania 16/2004 “Norme sul governo del territorio”

Prima di esprimere modeste considerazioni sul presente-futuro della legislazione urbanistica campana, una breve premessa è doverosa per comprendere il “clima” italiano e campano. Nella disciplina urbanistica, l’Italia non è più un modello o Paese guida da cui attingere buone pratiche o innovazioni tecnico-giuridiche, e la Campania, in maniera particolare, paga le conseguenze peggiori poiché le maggioranze politiche espresse dai cittadini hanno privilegiato ristretti ceti sociali dirigenziali e clientelari, ma negando diritti costituzionali a buona parte della popolazione. La scelta politica principale è stata quella di ignorare la corretta disciplina urbanistica per mercificare il territorio, trascurare le bellezze paesaggistiche creando disvalore, danni sociali e ambientali diffusi. Il mantra del mercato diffonde il vizio della corruzione, ed è insita nella famigerata rendita fondiaria ed immobiliare, che in Italia non è stata contrastata ma accettata, e spartita fra pochi. Nel resto d’Europa la gestione urbana è nel solco dell’ideologia liberale ma gli altri Paesi sono ben consapevoli del fatto che la rendita assoluta nelle mani private sia un furto inaccettabile per lo Stato, e pertanto non hanno rinunciato al ruolo attivo e pubblicistico della Pubblica Amministrazione. In Italia, la maggiore diffusione di questa patologia (rendite parassitarie e disordine urbano) risale al secondo dopo guerra, nonostante una avanzata legislazione nazionale L. 1150/1942 che ambiva a fare bene i piani, e nonostante si conoscessero gli effetti perversi sin dall”800 (Hans Bernoulli, 1876-1969). L’evidenza patologica si ebbe con la sconfitta della proposta di riforma urbanistica (Sullo, 1962). Il ceto dirigente italiano scelse la teologia liberista per rubare risorse allo Stato ed accumularle facilmente nelle tasche private (circa 800/1000 miliardi di euro; Blečić, Lo scandalo urbanistico 50 anni dopo, FrancoAngeli, 2017), cioè di chi influisce sulle scelte pianificatorie delle trasformazioni urbanistiche. Un dato inquietante rilevato dall’ANAC nel Rapporto 2020 dice che fra i settori più colpiti dalla corruzione il 74% riguarda gli appalti pubblici. Nella letteratura tali fenomeni speculativi – disordine spaziale e istituzionale – sono associati anche al carattere criminogeno del ceto dirigente che ha la forza di influenzare e determinare le scelte politiche dei piani, agendo come «soggetto politico e referente culturale, in grado di organizzare un proprio modo di produzione» (D. De Leo, Mafie&Urbanistica, FrancoAngeli, 2015). Queste scelte, col trascorrere dei decenni, hanno deformato la struttura capitalista italiana stimolando la crescita delle rendite parassitarie ma penalizzando la capacità produttiva del sistema Paese. La rendita è la classica accumulazione capitalista sganciata dal lavoro, e questo fenomeno si è diffuso in tutta Italia per l’eccessiva presenza di seconde, terze abitazioni creando un corto circuito sociale ed economico.

Da ciò possiamo cominciare a desumere e riconoscere il fatto che i problemi nelle città italiane non derivano tanto dalle leggi ma dalla condotta delle istituzioni politiche, e non dal fatto che si voglia imporre una strategia o una pianificazione ma dall’assenza di valori costituzionali e di piani fatti bene, edulcorati e condizionati proprio dalle famigerate rendite parassitarie.

Nel resto d’Europa, i ceti dirigenti hanno preferito conservare l’approccio socialista (pubblicistico), sia formando adeguatamente la pubblica amministrazione e sia sviluppando capacità di governare il meccanismo della rendita, tassandola adeguatamente con il recupero diretto dei plusvalori ma progettando corretti piani urbanistici, con densità equilibrate e servizi di prossimità. Ad oggi, il modello migliore sembra essere “SoBoN” di Monaco di Baviera, attraverso una adeguata e normale regia pubblica che pianifica e concorda gli interventi di rigenerazione urbana, e preleva una corretta tassazione della rendita (recupero diretto del plusvalore fondiario) per costruire la “città pubblica” con servizi di welfare urbano e sociale. Il problema urbanistico campano è tutto qui: l’incapacità di costruire adeguatamente la “città pubblica” (standard e servizi) rispettando l’enorme valore ambientale esistente (paesaggio e patrimonio storico).

L’effetto di deregolamentare il regime giuridico dei suoli trascurando la scienza dell’urbanistica creò danni economici per lo Stato e disuguaglianze territoriali, ma ciò fu limitato nelle Regioni di sinistra che scelsero di controllare la rendita e potenziarono gli standard utilizzando la disciplina urbanistica, tant’è che esistono territori più o meno pianificati. Quelle Regioni che scelsero maggioranze politiche comuniste/socialiste oggi ereditano città attrezzate meglio con insediamenti urbani più progrediti, accoglienti ed attrattivi, sfruttando anche l’usurpazione di un’iniqua ed ingiusta distribuzione delle tasse che favorisce alcune aree (pianura padana) a danno di molte altre (Sud e non solo). Queste differenti ed opposte scelte politiche creano i primi grandi divari territoriali che stimolano l’emigrazione. La Regione Campania è fra i territori meno pianificati e maggiormente distrutti dai processi speculativi, nonostante la straordinaria bellezza del patrimonio costruito ereditato, poiché l’esplosione urbana avvenuta dal secondo dopo guerra in poi ha catturato ed avvolto secoli di storia.

ISTAT, lo spopolamento del Sud con il calo demografico e l’emigrazione dei giovani, 2023.

Dal secondo dopo guerra in poi le istituzioni campane hanno dimostrato una incapacità nell’applicare i diritti costituzionali ribaditi nel famoso DM 1444/68, una scarsa tutela delle caratteristiche paesaggistiche, naturali, storiche, e scarsa tutela delle zone rurali favorendo un’espansione senza limiti che ha creato aree urbane estese determinando l’obsolescenza dei confini amministrativi; poi a partire dagli anni ’90 sono iniziati i fenomeni di contrazione demografica; mentre le amministrazioni non hanno saputo governare i fenomeni di concentrazione e dispersione delle attività e delle funzioni che determinano i flussi di persone e merci. La globalizzazione ha favorito la contrazione demografica nei comuni centroidi mentre l’eccessiva concentrazione ha costruito agglomerati congestionati con gravi carenze di standard nei quartieri (zone consolidate) ed alta dispersione (periurbano e rururbano), che favorisce disuguaglianze territoriali intollerabili, e sono altrettanto noti i fenomeni di abusivismo edilizio, rischio sismico ed idrogeologico che diventano drammatiche emergenze per l’assenza di prevenzione primaria.

Di fronte a tale eredità complessa e complicata, ed anche criminale, non si ha il coraggio di proporre cambiamenti radicali, ma si immagina che i soggetti privati siano guidati da un’etica ed un senso di responsabilità migliori di chiunque altro. Si crede che i soggetti economicamente più forti debbano indirizzare le scelte politiche per concedere, in maniera paternalistica, la costruzione dei diritti costituzionali. La storia urbana italiana dimostra in maniera inequivocabile che il famigerato mercato è stata la favola raccontata alle masse per arricchirsi a danno della collettività, e tutt’oggi tale narrazione viene propinata senza alcun pudore.

Nonostante ciò non si deve credere che ogni investitore o soggetto attuatore sia uno speculatore perché non è così, ed in Campania sembra mancare la volontà politica ed istituzionale nel realizzare un serio coordinamento pubblico capace di ottenere l’interesse generale affrontando i problemi urbani (carenza di servizi), sociali ed ambientali degli abitanti costretti a sopravvivere, in numerosi ed estesi “brani urbani”, in disordinati agglomerati di mera merce edilizia privi o carenti di servizi. Il paradosso italiano è che le aree urbane che necessitano di reali e concreti progetti di rigenerazione urbana sono quasi tutte al Sud, ma le istituzioni appaiano del tutto incapaci di applicare la Costituzione, e di liberare la creatività dei progettisti, per restituire diritti a quegli abitanti, costretti ad emigrare, ancora oggi, per vivere più dignitosamente.

Il D.L.R. Campania n.369 del 19/06/2023 modifiche alla L.R. Campania 16/2004 “Norme sul governo del territorio” con un ritardo di 28 anni (riforma INU 1995) si adegua agli indirizzi “strutturali” (Piano Strutturale Urbanistico, PSU) ed “operativi” (Programmi Operativi, P.O.) della pianificazione urbanistica (art. 22 e 23). I livelli sono due: strutturale ed operativo con un sottolivello attuativo (Piani Attuativi, PA), ed infine, ovviamente il Regolamento Urbanistico Edilizio (RUE). Il livello strutturale del piano (PSU) indica le destinazioni d’uso, individua gli indici e i parametri di densità, gli ambiti di intervento ed i fabbisogni pregressi non soddisfatti in termini di dotazioni ecologiche, attrezzature e servizi di interesse collettivo, e le potenzialità insediative di riuso, rigenerazione e densificazione all’interno del territorio urbanizzato. Se da un lato la norma ambisce a “recuperare il tempo perduto” dall’altro lato l’indirizzo appare programmatorio-strategico anziché della pianificazione che interviene sull’intero territorio comunale ma non focalizza i problemi urbani specifici della Campania. La norma, paragonata a quella delle Regioni Toscana, Lombardia ed Emilia Romagna, appare carente sotto il profilo culturale, soprattutto dal punto di vista “territorialista” trascurando concetti come “patrimonio territoriale“, “invarianti strutturali” e “statuto del territorio“, così si limita a copiare alcuni indirizzi europei e nazionali di carattere strategico, ma quella campana non regolamenta la creazione di un quadro di conoscenza di tutto il territorio, cioè non indica l’analisi e la valutazione dei tessuti urbani esistenti, ma si affida ad un elenco di buone intenzioni (art.2). La Regione Toscana ha una legge sul governo del territorio (L.R. 65/2014 aggiornata nel 2023) scritta in 9 Titoli e 256 articoli; mentre la norma campana (L.R. 16/2004 in fase di aggiornamento) è articolata in soli 3 Titoli e 50 articoli. Oltre alle differenze sui principi (patrimonio territoriale, invarianti strutturali, statuto del territorio), la Toscana norma nel Titolo II procedure e partecipazione con 27 articoli; nel Titolo III con 17 articoli norma gli istituti della collaborazione (accordi di pianificazione e Conferenza paritetica); e nel Titolo IV con 30 articoli la tutela del paesaggio (territorio rurale) e la qualità del territorio (qualità degli insediamenti); nel Titolo V con 42 articoli troviamo gli atti di governo del territorio e la rigenerazione urbana e nel Titolo VI troviamo l’attività edilizia. La Regione Campania norma in un solo Titolo (II) e 30 articoli ciò che la Toscana norma con ben 4 Titoli (V, VI, VII, VIII) in 133 articoli. Le differenze estensive sono troppo ampie per normare la stessa materia; forse la Toscana ha esagerato oppure la Campania è troppo riduttiva. In Campania si trascura la condivisione e pubblicizzazione di una approfondita banca dati informatizzata degli insediamenti urbani, sinonimo di conoscenza condivisa a tutti. C’è una scarsa focalizzazione sulle strutture urbane estese e l’ennesima sottostima del disordine urbano esistente.

Dal punto di vista del dimensionamento dei piani e dei diritti costituzionali, la norma campana (art. 31) si limita a confermare lo standard minimo previsto dal DM 1444/68, appena 18 mq/ab, mentre altre Regioni sono arrivate a 30 mq/ab già molti anni fa, e la stessa Regione Campania negli anni ’70 prescriveva 30 mq/ab. Questa scelta riduttiva degli standard è in contraddizione con gli stessi obiettivi del disegno di legge che chiede il «rafforzamento del verde e degli spazi urbani» (art. 2). Dal punto di vista dell’attuazione la norma prevede la perequazione di comparto (artt. 32 e 33) e non quella diffusa.

La norma chiede ai Comuni di contenere il consumo di suolo agricolo limitando le espansioni per preferire interventi rigenerativi dentro le zone consolidate, e tutto è ciò è auspicabile [evitare di consumare altro suolo] ma emergono subito difficoltà da superare poiché la realtà campana abbonda di zone congestionate ed affollate, che necessitano di essere decongestionate per fare spazio a standard di quartiere assenti. In Campania, com’è noto, insistono numerosi centri urbani a rischio vulcanico. Il D.L.R. intende continuare sul piano della “semplificazione” dei processi di trasformazione urbana scommettendo sull’interesse dei soggetti privati nel programmare nuove lottizzazioni private; la norma sembra voler dire: la “semplificazione” (in taluni casi permesso di costruire convenzionato e SCIA) può fare a meno della corretta pianificazione urbana, per preferire e continuare con un approccio di programmazioni strategiche (c. 3 art. 3) suggerendo ai Comuni un elenco di “azioni” (art. 2) da adottare (azioni condivisibili) ed attrarre gli investitori privati (c. 2 art. 33 ter) che potranno presentare un proprio “programma operativo” sfruttando gli incentivi (c. 7 art. 33 quater), ed accelerando tali processi attraverso la “dichiarazione di pubblica utilità”.

Lo scopo dell’urbanistica non è il profitto dei privati ma costruire diritti per tutti gli abitanti, e l’approccio teologico liberale ampiamente diffuso in Italia crede che l’indirizzo strategico dei piani possa ottenere risposte adeguate e in tempi più rapidi.

La rigenerazione urbana è prevista dal c. 9 bis art. 23 (D.L. 314/2022) sempre attraverso l’approccio strategico ed un elenco di “azioni prioritarie” da progettare; mentre nel comma 9 ter dell’art. 23 continuano le gaffe culturali credendo che gli incentivi, i premi e l’innovazione tecnologica determinano qualità architettonica ed urbanistica. Il comma 9 octies dell’art. 23 intende favorire i trasferimenti di volumi degli edifici posti in aree ad alto rischio idrogeologico da frana e da alluvione attraverso l’incremento volumetrico del 50% dell’indice fondiario per l’edilizia residenziale. L’incentivo serve a sostenere la fattibilità economica degli interventi, e non è negativo in sé. La rigenerazione urbana potrà essere attuata nei quartieri residenziali degradati, aree dismesse e periferie, attraverso P.O. (art. 33 quater).

La norma introduce regole per favorire interventi di Edilizia Residenziale Sociale (art. 48 bis), e per gli interventi di sostituzione edilizia nelle aree dismesse bisogna destinare almeno una quota del 40% della volumetria lorda preesistente e ricostruita per l’ERS (9 decies art. 23).

Dal punto di vista della trasparenza informatica (art. 17), nonostante si millanti una condivisione, il geoportale della Regione Campania non presenta una completa condivisione di dati informatici circa gli insediamenti urbani come fanno altre Regioni (Toscana, Emilia Romagna, Lombardia…). L’assenza di dati condivisi è un evidente ostracismo ed un enorme danno pubblico poiché limitando la capacità creativa e progettuale delle libere professioni si limitano i diritti collettivi di tutti.

La recente attività edilizia campana continua a costruire la negazione della città, perché non si elabora un corretto assetto del territorio con un disegno di suolo, e quindi si assiste alla costruzione di nuovi edifici multipiano a torre scompaginati, a volte isolati, nelle forme aperte sia nelle espansioni periferiche, e sia riempendo alcuni vuoti urbani dentro le zone consolidate aumentando le congestioni esistenti. E queste recenti lottizzazioni spesso non hanno contribuito a costruire la “città pubblica”, poiché gli stessi Enti pubblici sembrano incapaci di applicare l’interesse pubblico. Questa cattiva gestione urbana è alla base delle disuguaglianze economiche e sociali, che producono effetti già noti: la concentrazione di ricchezze parassitarie che sfruttano le rendite, il disvalore della città stessa perché non produce ricchezza distribuita e quindi si stimola l’espulsione di importanti risorse umane che emigrano verso Sistemi Locali del Lavoro gestiti meglio, perché più attrattivi e più sostenibili.

Nella norma si leggono altre gaffe culturali poiché si confonde e ci si affida alla “programmazione” (economica) anziché alla pianificazione, e poi si crede che la rigenerazione urbana si possa realizzare anche attraverso il recupero delle superfetazioni (locali tecnici, art. 45 ter).

In Italia prosegue un limite culturale viziato dalla vecchia scelta liberista, e pertanto il ceto dirigente continua a svalutare il sapere, la conoscenza, per favorire l’egoismo di settori privati che usurpano i diritti collettivi sfruttando il territorio. La teologia preferisce il carattere programmatorio e non pianificatorio perché lo giudica più veloce, ma si tratta di una scelta politica ideologica sia per accontentare l’immagine propagandistica dei Sindaci che promettono interventi puntuali da realizzare entro il mandato elettorale, e sia per sostenere gli interessi privati. Questa scelta è ampiamente radicata tant’è che la legge sui contratti pubblici prevede il partenariato pubblico privato nella programmazione e realizzazione delle opere pubbliche (c. 2 art. 37 D.Lgs. n.36/2023). Tutto ciò non è sconveniente ma in Campania la maggioranza dei Comuni non riesce ad ottenere significativi miglioramenti della morfologia urbana per assenza di cultura fra gli amministratori circa la corretta pianificazione urbana.

La mentalità “programmatoria” è stata trasferita ai funzionari (ormai meri burocrati) che recepiscono pedissequamente gli indirizzi europei e riducono il ruolo dell’Amministrazione alla sola compilazione di schede e bandi per ottenere fondi. Non adottando più piani urbanistici rispondenti a idee, a valori identitari, territoriali, ci si limita a compilare carte; ed in tal senso l’organo politico appare persino inutile. Gli Enti locali campani appaiono carenti anche in questo aspetto “programmatorio”, ragion per cui non si ottengono risorse, ma la politica dovrebbe pensare ed esprimere idee di valore (caratteri identitari dei luoghi e del territorio per stimolare nuova occupazione utile), e poi decidere, al fine di applicare gli indirizzi della Costituzione, invece per assenza di piani fatti bene, accade che servizi e diritti sono negati e sottratti stimolando l’emigrazione verso il Nord e l’estero di giovani laureati, e studenti universitari. In assenza di cultura della corretta pianificazione urbanistica, ciò che resta è la mera accumulazione capitalista attraverso volgarissimi e violenti piani edilizi che realizzano la negazione della città, fra l’altro creando un disvalore.

A partire dagli anni ’80, la classe dirigente italiana attraverso norme e regole ha scelto di sminuire la figura professionale dell’architetto-artigiano (e del libero professionista), la stessa che ha dato lustro ed identità all’Italia intera. La teologia liberale chiama tutto ciò “competitività di mercato”, ma gli strumenti giuridici adottati assomigliano alla società medioevale che si basava sul vassallaggio. Il legislatore italiano, da molti anni ormai, ha condotto e vinto una guerra incivile contro le libere professioni, per addomesticarle, snaturarle, umiliare e mortificarle, per sfruttare a basso o bassissimo costo le competenze tecniche. Il famigerato D.Lgs n.36/2023 conferma l’edulcorazione culturale dell’operatore economico (un tecnico non è un operatore economico) mentre all’interno della pubblica amministrazione si sfrutta l’impiego di un tecnico ma sottopagato (il cosiddetto istruttore tecnico/RUP) per assolvere a tutti i compiti di indirizzo, programmazione, progettazione, controllo, esecuzione e gestione del processo delle opere pubbliche realizzabili anche con i subappalti a cascata. Le opere pubbliche sopra soglia sono progettate da operatori economici, spesso da archistar simili a multinazionali della progettazione.

La scommessa è quella di credere al mercato e quindi continuare a sottovalutare i privilegi egoistici della rendita parassitaria poiché c’è il serio rischio che i privati potranno attribuirsi da soli gli incentivi previsti ed approvati dalla Giunta comunale (cioè dal Sindaco). La maggioranza politica scommette su nuovi cicli economici attraverso l’iniziativa privata, ma nei Paesi civili e normali (progrediti), le istituzioni locali rappresentano correttamente l’interesse generale proprio attraverso la pianificazione, cioè fanno l’opposto di quello che accade in Campania.

Così hanno distrutto il territorio

L’episodio romano che coinvolge lo stimato Paolo Berdini, ricorda alle vecchie generazioni le lotte a tutela del territorio mentre potrebbe consentire alle nuove di imparare una lezione politica fondamentale. Facciamo alcuni passi indietro. A partire dal secondo dopoguerra, l’Italia esce sconfitta dal conflitto ed entra nel famigerato patto Atlantico, che dal punto di vista culturale significa abbracciare l’ideologia liberale capitalista. La conseguenza di ciò, è l’inizio dell’epoca consumista con tutte le degenerazioni culturali, sociali, e ambientali che vediamo ancora oggi. Negli anni ’60 e ’70 la classe politica era decisamente divisa, e l’urbanistica è stata la tematica del conflitto politico più acceso con la vittoria dell’ideologia liberale, quando vinse la battaglia sul regime dei suoli sacrificando la proposta del Ministro Sullo (1962). Da un lato la visione costituzionale circa l’esproprio e l’utilità sociale della proprietà e dall’altro la visione liberale del laissez faire al mercato. Lo strumento politico preferito dagli accademici, dai professionisti, cosiddetti territorialisti, riformisti, e promotori della conservazione e della tutela del territorio e del patrimonio storico, ove suggerire soluzioni politiche per attuare una corretta crescita urbana e contenere il disordine urbano, è stato il partito comunista. Tale ambiente culturale ha saputo influenzare anche esponenti della vecchia democrazia cristiana. I due fronti erano: la DC che chiudeva gli occhi sulla crescita disordinata e il PCI che preferiva una crescita ordinata e controllata. Entrambi gli atteggiamenti erano favorevoli a una crescita urbana, e di fronte all’opportunità dell’ideologia liberale di fare profitti senza lavorare, cioè sfruttando la rendita, si può intuire quale soggetto politico abbiano preferito gli italiani. La DC non fece grande fatica nel manipolare l’opinione pubblica circa il conflitto delle rendite private e il regime dei suoli, e convinse tutti nell’abbandonare la pubblicizzazione dei suoli. Prevalse l’ideologia capitalista liberale spazzando via la riforma che tutelava l’ambiente e di conseguenza la specie umana. Verso la fine degli anni ’80 e inizio anni ’90 si dissolve il partito comunista, lo strumento portatore di interessi generali circa il governo del territorio, e l’ideologia liberale non avendo più argini prosegue la sua cavalcata nella distruzione del territorio. Negli anni recenti (inizio nuovo millennio) si è avuta un’impressionante accelerazione circa il consumo di suolo agricolo, mentre il patrimonio esistente, storico e moderno arrivato a fine ciclo vita, è vittima dell’ignoranza e dell’incuria dei cittadini e di una classe dirigente politica incapace e inadeguata. Gli italiani non hanno più un soggetto politico di riferimento che sappia interpretare e applicare la conservazione del patrimonio esistente e il corretto utilizzo delle risorse naturali. Un aspetto drammatico del contesto politico attuale, è che negli Enti locali, competenti sull’urbanistica, i soggetti politici presenti nelle istituzioni non hanno più riferimenti culturali dai territorialisti, e di volta in volta si affidano a consulenze tecniche condizionati dalle circostanze, o delle opportunità relazionali dirette, o a seconda degli interessi privati. Appare chiaro che non esistendo più il partito comunista che rappresentava una visione culturale dell’urbanistica, i soggetti politici fanno scelte sul governo del territorio a seconda delle convenienze, e delle singole circostanze localistiche, in tal modo possono continuare col disordine urbano a danno della collettività.

Nel corso del Novecento, noi italiani abbiamo pagato due enormi dazi culturali, il primo fu il fascismo che ci isolò, proprio mentre il resto dell’Occidente attingeva a piene mani nella storia e nella cultura urbanistica e architettonica classica contribuendo a formare una cultura della pianificazione (la scuola catalana dell’uguaglianza e la scuola territorialista). Durante il Novecento siamo stati fra i paesi meno formati sulla cultura urbanistica, nonostante il nostro patrimonio sia sotto gli occhi di tutti. La sconfitta bellica ha favorito la programmazione mentale della scuola liberale trasformando il territorio in merce – nonostante un’adeguata legge urbanistica (1942) –  contribuendo a soffocare i contributi (corretto uso del territorio – DM 1444/68) culturali di quei pochi urbanisti formatisi in Italia, nonostante il fascismo e nonostante il liberismo.

Paolo Berdini è cresciuto nel contesto culturale a tutela degli interessi collettivi. I capitalisti liberali non potevano avere ostacolo peggiore poiché di fronte non si sono trovati un politicante, ma un urbanista vero che svolge una funzione politica precisa: tutelare l’interesse generale. In tempi di guerra politica come questa, l’élite odia dover ragionare nel merito dei suoi interessi con persone che possiedono il senso dello Stato. I liberisti odiano lo Stato sociale e l’etica pubblica. Berdini conosce l’ambiente, la storia dell’urbanistica romana, gli interessi privati in gioco, e soprattutto possiede la competenza tecnica per smontare e rimontare i castelli finanziari costruiti sul territorio romano. Il dibattito che fa emergere Berdini è un manuale completo dei conflitti e degli interessi privati in gioco nell’urbanistica, una storia vecchia molto nota alla sua generazione, ma del tutto sconosciuta alle nuove generazioni di politici inesperti che possono fallire l’obiettivo di rappresentare adeguatamente la res pubblica, poiché emergono dal nulla, senza aver studiato e sudato in una scuola politica. Ancora oggi, i cittadini fanno fatica ad accettare un principio giuridico, l’urbanistica non è fatta per fare profitti ma per costruire diritti a tutti i cittadini.

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DiEM25 e il meridione d’Italia

Ho aderito al manifesto di DiEM25 poiché condivido l’analisi critica sull’UE e l’obiettivo di introdurre la democrazia nell’UE. Dal sito di DiEM25 leggiamo che «l’UE deve diventare il regno della prosperità condivisa, della pace e della solidarietà per tutti gli europei». E’ la descrizione di un sogno e di una visione molto bella, ma per trasformare tali sogni in realtà è necessario organizzarsi e cambiare passo, per osservare attentamente quanto la realtà sia diversa per la presenza di disuguaglianze economiche profonde e ingiuste, e pertanto è una risposta comune a problemi eterogenei è difficile.

La sintesi politica sull’UE è perfetta: «debito, sistema bancario, povertà, bassi investimenti, migrazioni», e inoltre si afferma che DiEM25 è lo strumento per «elaborare una risposta comune a questa crisi» e che le istituzioni dell’UE diventino trasparenti e responsabili verso i cittadini europei. DiEM25 si è organizzato con un “Gruppo consultivo”, un “Collettivo di coordinamento” e con gruppi di volontari “DSC”. Nel “Gruppo consultivo” ci sono anche personalità importanti e note provenienti dal mondo accademico e dello spettacolo, tali personalità possono contribuire a dare qualità alle proposte di cambiamento su temi economici e sociali. Nel cosiddetto “Collettivo di coordinamento” troviamo le persone più attive nell’organizzare e promuovere DiEM25. Le competenze di alcune personalità presenti in DiEM25 sono più che sufficienti nel compiere un’analisi corretta e proporre soluzioni per migliorare l’UE. Trasformare le proposte che possono emergere da DiEM25 in azione politica efficace è un lavoro diverso, molto complicato e difficile.

In Italia, DiEM25 è pressoché sconosciuto ma come tutti i progetti neonati le cose possono cambiare. Navigando il sito di DiEM25 e frequentando il forum di DiEM25, cioè dialogando con altri cittadini europei, credo di coglierne le difficoltà attrattive e di partecipazione. L’approccio e i temi del manifesto sembrano distanti dalla vita quotidiana delle persone, e poi c’è la barriera inevitabile della lingua straniera. Penso che noi italiani conosciamo poco o nulla dell’UE. Inoltre, la gravità della recessione economica non incentiva le persone nell’impegno politico, ma contribuisce a rinchiuderle nei propri problemi sociali, economici e culturali per sperimentare soluzioni improvvisate utili a sopravvivere. Nel meridione d’Italia il tasso di disoccupazione è così alto che dovrebbe stimolare i giovani a occuparsi di politica ma da decenni accade l’esatto opposto. Per «elaborare una risposta comune a questa crisi» non bisogna commettere l’ingenuità di ignorare le peculiarità sociali ed economiche dei territori e delle regioni europee. E’ necessario che DiEM25 sviluppi la capacità di calarsi e vivere i territori coinvolgendo direttamente le persone di quegli ambienti, invitandoli a suggerire e applicare le soluzioni politiche.

Oltre al manifesto politico, per il momento DiEM25 non propone altro. Il mio auspicio è che la visione bioeconomica entri nel manifesto e che le politiche urbane occupino un posto di rilievo per le proposte politiche. La ragione è semplice, circa l’80% della popolazione occidentale vive nelle città, perciò chiunque studi e si occupa dell’esperienza urbana si sta occupando della vita delle persone. E’ nelle città che si manifestano i più grandi squilibri sociali dell’Occidente, è nelle città che si creano le più grandi opportunità economiche e sociali per le persone. Le città sono contemporaneamente i luoghi delle opportunità e i luoghi del disagio e del degrado.

Osservando la realtà è facile riconoscere come e quanto le aree urbane italiane siano diverse dalle altre, non solo per il patrimonio costruito, per le dimensioni ma per le caratteristiche fisiche del territorio e per l’uso che le imprese e gli abitanti fanno delle risorse. Nel resto d’Europa non esiste lo stesso rischio sismico e idrogeologico che troviamo in Italia, nei balcani e in Grecia. Di fronte a queste sfide, spesso la classe dirigente politica è incapace e irresponsabile sia nell’ascoltare le categorie di esperti, e sia nel programmare la normale manutenzione del territorio riducendone i rischi.

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Progetto Share, Commissione europea.

 

DiEM25 dovrebbe sostenere politiche urbane bioeconomiche partendo dalla realtà territoriale che non è affatto uguale in tutta Europa, e pertanto non esistono soluzioni e modelli generali da poter vendere nel mercato politico.

L’Italia, diversamente dagli altri, è il paese che ha scelto di “privatizzare” il governo del territorio, perdendone il controllo pubblico dell’attività edilizia, e favorire la rendita privata più degli altri. Ciò ha costituito e costituisce tutt’oggi un conflitto politico sociale ed economico che ancora non trova soluzione, e la ragione è soprattutto politica, oltre che culturale. Negli anni della ricostruzione post bellica fu il partito comunista a rappresentare le battaglie contro le rendite, e com’è noto non avendo la maggioranza politica dagli elettori italiani non riuscì a tutelare adeguatamente il territorio e contenere il disordine urbano, se non in quelle città amministrate direttamente dal PCI. Dopo la scomparsa di Berlinguer (1984) c’è stato il nulla, e in Italia non esiste un soggetto politico che si renda conto degli enormi problemi sociali, ambientali ed economici innescati dal disordine urbano, costruito nei decenni precedenti, dalle rendite di posizione e dagli attuali piani urbanistici pensati partendo dal profitto dei privati. Ancora più grave non c’è un soggetto politico che abbia il coraggio di opporsi a tutto ciò.

Esiste invece un’idea generale da poter suggerire, e cioè la territorializzazione delle politiche urbane. Ad esempio, i comuni del meridione d’Italia hanno tutte le opportunità di migliorare le condizioni di vita degli abitanti attraverso un percorso di riterritorializzazione bioeconomica che crea occupazione utile. Territorializzare significa ridurre la dipendenza dal sistema globale, e può avvenire programmando l’auto sufficienza energetica e di cibo; programmando processi di rilocalizzazione produttiva (manifattura leggera, trasporti, comunicazione, rigenerazione urbana) e orientando i consumi su merci locali.

Il meridione d’Italia, diversamente da altre aree geografiche non ha una “rete delle città“, cioè non esiste una diffusa infrastruttura ferroviaria che unisce tutte le città ma solo alcune, non c’è in Sicilia, non c’è fra le città costiere pugliesi, campane e calabre. Non c’è un’adeguata rete ferroviaria in Sardegna. Per costruire quello che già esiste in Europa, è necessario che la Repubblica torni ad applicare la sovranità e programmare politiche pubbliche socialiste incoraggiando i centri di indirizzo e controllo politico coordinando gli istituti accademici, i centri di ricerca e le associazioni affinché il progetto culturale condiviso si traduca in politiche industriali bio economiche capaci di finanziare connessioniattività e strutture fondamentali per favorire opportunità dello sviluppo umano. Territorializzare significa dare senso, significato, forza e vita alle persone che vivono i luoghi utilizzando le risorse in maniera razionale e valorizzando il sapere locale. Dal punto di visto politico significa cambiare il paradigma culturale della società ma è necessario farlo se vogliamo sopravvivere e costruire un futuro sostenibile.

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Occupazione in Europa, fonte immagine Openpolis, Piove sempre sul bagnato.